Roma, 7 giugno 2017
Circolo Ufficiali delle Forze Armate D’Italia – Università Popolare Tommaso Moro
Immigrazione e sicurezza nazionale
Le analisi, i convincimenti e le posizioni politiche che riguardano l’interdipendenza tra fenomeni migratori e sicurezza nazionale costituiscono da diversi anni uno dei motivi di contrasto più profondo tra i partiti, nel mondo dell’informazione e nell’opinione pubblica.
Si tratta infatti di un terreno sul quale agiscono fattori economico-sociali, etnici, culturali e religiosi. Influiscono il fallimento presso che generalizzato di politiche di integrazione e di sviluppo di Comunità che sono rimaste emarginate dal progresso economico dei Paesi che le ospitano; pesano negativamente ideologie e orientamenti religiosi che rifiutano i valori di libertà, i diritti della persona, le leggi dei Paesi ospitanti.
Lo tsunami migratorio degli ultimi quattro anni ha riversato sulle nostre coste un milione di migranti. Essi vanno ad aggiungersi ai cinque-sei milioni di stranieri residenti legalmente e non nel nostro Paese. Cresce rapidamente il numero di bambini non accompagnati , di uomini in giovane età, spesso minorenni. Centinaia di migliaia di giovanissimi, entrati in Italia come “illegali”, sono destinati a ottenere rapidamente la cittadinanza italiana una volta che sarà entrato in vigore l’iter ultrasemplificato dello Jus soli. Un percorso ben diverso da quello –complicatissimo e con adempimenti burocratici spesso insormontabili- -previsto dalla legge del 1992 e sue circolari applicative per i discendenti di nostri connazionali all’estero.
Il numero complessivo degli stranieri in Italia, legali e non, viene stimato attualmente attorno al 10% della popolazione complessiva. Tra questi, le Comunità Musulmane crescono più rapidamente per effetto della nostra “politica della porta aperta” . L’insieme di tutti questi elementi ,a giudizio di quanti hanno studiato a fondo il fenomeno della radicalizzazione e del fondamentalismo islamico negli altri maggiori Paesi europei, potrebbero portare in pochissimi anni il modello italiano al “punto di rottura” verificatosi in Gran Bretagna, Francia e Belgio.
L’accelerazione impressionante degli sbarchi ancora nei primi cinque mesi di quest’anno ha proprio luogo sullo sfondo di una parallela accelerazione di attacchi terroristici in Europa e nei Paesi a noi vicini del Mediterraneo.
Sino al marzo 2015, quando un attacco al museo tunisino del Bardo ha provocato quattro vittime italiane, con la prova che un terrorista, e probabilmente l’organizzatore dell’attacco, Abdel Majid Touil aveva viaggiato in un barcone di clandestini dalla Libia a Porto Empedocle senza essere individuato dalla Polizia italiana nonostante si trattasse di un ricercato, il Governo italiano si era trincerato dietro la tranquillizzante versione che “i terroristi non viaggiano tra i migranti.
Una tesi che il Ministero dell’Interno continuò ad affermare anche dopo la richiesta di estradizione tunisina contro Abdel Majid Touil. Di fatto, sino alla tragedia del Bardo, chi si azzardasse di affermare che il traffico di migranti può essere utilizzato dalle organizzazioni criminose sulla rotta Mediterranea e Balcanica anche per favorire i terroristi, o che radicalizzazione e estremismo riguardano anche le Comunità Musulmane in Italia, e non soltanto quelle di altri Paesi europei, veniva prontamente bollato come “populista” o “islamofobo”, e accusato di strumentalizzare le ansie del pubblico per finalità elettorali. Un orientamento ampiamente condiviso dai membri di Governo, dagli intellettuali, dai media, dalla Chiesa, dalle ONG e dalla galassia di organizzazioni umanitarie attive nell’ospitalità ai migranti e non di rado sospinte, come emerso con Mafia Capitale e con la più recente inchiesta sul centro di accoglienza di Crotone, da collusioni con il malaffare e la criminalità organizzata più che da nobili finalità umanitarie.
Negli episodi che hanno colpito dal 21015 Francia, Germania, Inghilterra, Belgio, Tunisia e Bangladesh si sono ripetuti decine di casi di terroristi transitati dall’Italia, o nati da genitori musulmani in Italia. Peraltro il principio di un chiaro collegamento tra minaccia terroristica , radicalizzazione e immigrazione stenta ancora ad affermarsi. Passa in secondo piano anche l’accresciuta minaccia derivante da uno Stato Islamico insediatosi a Sirte nel 2014, per poi esserne cacciato da Milizie e da Forze Armate Libiche ma senza essere veramente neutralizzato .Sarebbero migliaia i militanti dell’Isis che si sono trasferiti nel Sud ovest libico. L’Isis ha continuato a lanciare proclami minacciosi contro l’Italia.
Sin dal 2015 i sondaggi Pew nei dieci principali Paesi europei segnalano ua netta maggioranza di quanti ritengono che l’immigrazione incontrollata accresca la minaccia terroristica.
L’appello rivolto spesso ai leader europei è di concentrarsi sulla corretta informazione ai cittadini, di creare consapevolezza delle modalità che portano all’estremismo e alla radicalizzazione, della necessità di un approccio diverso nella risposta al fondamentalismo islamico.
Una narrativa sottomessa e cedevole, riluttante all’affermazione dell’identità culturale e dei valori costituzionali del nostro Paese non fa che incoraggiare i l’Islam radicale nel diffondere il suo messaggio: che siamo noi stessi i primi a dubitare dei nostri principi e della solidità della nostre istituzioni democratiche e liberali. Ogni volta che scuole e insegnanti si mostrano timidi e riluttanti nell’affermare i nostri valori, quanto permettono che nelle loro classi si diffonda propaganda all’odio e all’antisemitismo come accaduto nelle manifestazioni in scuole francesi e belghe dopo i massacri del 2015, gli islamisti radicali e gli estremisti vincono. Lo stesso avviene quando ai livelli più alti delle nostre Istituzioni e nel mondo politico si nascondono i simboli della cultura occidentale e della Cristianità per compiacere visitatori di Paesi Musulmani. Se il pubblico fosse adeguatamente informato di alcune verità di fondo su strategie, collegamenti , doppiezze e minacce dei processi di radicalizzazione, il coinvolgimento e il sostegno delle nostre Società per piani d’azione ad ampio raggio nell’educazione e nella scuola, nell’antiterrorismo, nei programmi economici e sociali per le Comunità immigrate, sarebbe sicuramente più vasto e vigoroso.
A gennaio dello scorso anno è stata presentata al Parlamento il disegno di Legge D’Ambruoso su “Misure per prevenire la radicalizzazione e l’estremismo jihadista”. Si trattava di un programma di formazione per gli operatori di Polizia, della creazione di un sistema di informazione integrato tra tutte le rilevanti Amministrazioni dello Stato ai diversi livelli, di Governi locali e scuole, dell’adozione di linee guida obbligatorie, di programmi online tra studenti e insegnanti , di misure nel mercato del lavoro, d ell’adozione di un Piano Nazionale di azione per prevenire la radicalizzazione nelle prigioni e incoraggiare la reintegrazione sociale dei detenuti. Dopo diciotto mesi, in piena espansione dei fenomeni di radicalizzazione in Italia il disegno di Legge è rimasto nei cassetti ; evaporerà definitivamente alla fine di una legislatura che più di ogni alta cosa ha voluto occuparsi anzitutto di perpetuare i propri penosi equilibri , con infiniti dibattiti sul referendum costituzionale e legge elettorale. Alcune limitate misure – è vero- sono state adottate nei mesi scorsi dal Ministro dell’Interno Minniti per le carceri e internet. Non si può peraltro non essere sorpresi da silenzio, in questi ultimi provvedimenti, sui processi di radicalizzazione nelle Moschee e dall’assenza di misure efficaci per assicurare il rispetto della legalità nei confronti di centinaia di luoghi di culto abusivi.
Si dovrebbe ricordare, tra l’altro, che il contrasto all’estremismo violento, quale forma di prevenzione del terrorismo, è un preciso impegno di tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite, contenuto nella Risoluzione 2178 (2014) e 2249 (2015) adottate dal Consiglio di Sicurezza. L’ultimo Rapporto presentato nell’autunno scorso dal Segretario Generale al Consiglio, ha sottolineato come in Europa solo pochi Paesi si sono attenuti a quanto previsto dalla Risoluzione, per quanto riguarda l’adattamento legislativo richiesto. Alcuni Paesi europei, secondo il Rapporto, applicano le norme esistenti sul reclutamento e la partecipazione all’attività terroristica nell’ambito del Diritto Penale generale, proprio come fa l’Italia, mentre le legislazione dovrebbe essere adattate specificatamente alla fattispecie terroristica.
Vi sono poi altri aspetti che dovrebbero essere precisati normativamente:
- l’ammissibilità della prova acquisita da fonti di intelligence;
- le misure per prevenire imovimenti di foreign figthers;
- lo scambio accresciuto di dati fra gli organismi di Polizia e di intelligence.
Una proposta di legge- rimasta paradossalmente inevasa- era stata presentata dall’Onorevole Giorgia Meloni con altri Parlamentari per l’inserimento nel Codice Penale del “ crimine di radicalizzazione” per quanti mettono in pericolo la sicurezza pubblica promuovendo e disseminando appelli all’assassinio di persone accusate di apostasia, ad attuare punizioni attraverso la tortura la mutilazione, la flagellazione alla negazione della libertà religiosa, alla riduzione in schiavitù o al traffico di esseri umani. Tra gli ultimi casi di terroristi arrestati in Italia per poi esser rimessi in libertà per assenza di una norma specifica, come quella proposta dall’On. Meloni sul “crimine di radicalizzazione”, spicca quello del Marocchino co cittadinanza anche italiana che ha commesso e probabilmente organizzato l’ultimo attentato terroristico a Londra. Neppure quewsti fatti sono rilevanti per decidere su una proposta legislativa che la maggioranza di governo vuole continuare a seppellire? Non dovrebbe essere materia per un provvedimento legislativo di assoluta urgenza?
Il radicamento jihadista in Italia
In un suo importante lavoro il Prof. Lorenzo Vidino ha ricordato un numero crescente di indagini e di arresti di jihadisti spesso nati e cresciuti nel nostro Paese, Comunità di immigrati arabi, radicalizzati in Italia. Il suo studio segnala alcune caratteristiche:
- l’autonomia dei Jihadisti “cresciuti in Italia” dai Network internazionali;
- il massiccio uso di internet;
- la disponibilità di “lone wolves” – leoni solitari – disponibili per attacchi in Italia o per unirsi alla Jihad in Siria;
- lo scarso rapporto tra emarginazione socio-economica e fenomeni di radicalizzazione.
Secondo Vidino il jihadismo in Italia ha seguito un percorso un po’ diverso da quello degli altri Paesi dell’Europa occidentale. L’Italia è stato uno dei primi Paesi del Continente ad essere testimone di attività jihadiste su scala relativamente ampia. Negli anni ’90 i network jihadisti già presenti in Italia hanno avuto un ruolo importante nell’affermarsi della jihad globale eppure sino ai primi anni duemila la situazione in Italia era rimasta più tranquilla che in altri Paesi europei. C’è tuttavia da tener presente che l’Italia è stata tra i primi Paesi Europei a ospitare attività jihadista relativamente a larga scala. Militanti Nord Africani si sono stabiliti in diverse regioni del nostro Paese e Milano è rapidamente diventata un “hub” jihadista indiscusso, con la fondazione dell’Istituto Culturale Islamico di Viale Yenner nel 1982, ad opera dell’Organizzazione egiziana Al-Gama’a al-Islamiyya. L’Istituto Culturale Islamico ha acquisito ancora maggiore importanza per il jihadismo globale allo scoppio della Guerra Bosniaca nel ’92. Non solo l’Imam di Viale Yenner Anwar Shaban era il comandante dei combattenti nel battaglione dei Mujahideen bosniaci. Milano era lo snodo cruciale per l’invio dei documenti, finanziamenti sostegno logistico ai volontari che si recavano in Bosnia. Il primo attentato suicida in un Paese europeo è avvenuto nel ’95 con l’attacco a una stazione di Polizia di Rijeka da parte di un residente a Milano di discendenza egiziana. L’Istituto Culturale Islamico di Viale Yenner ha continuato le sue attività negli anni ’60 e all’inizio del 2000 continuando ad essere nella definizione del Dipartimento del tesoro americano “la principale stazione di Al-quada in Europa. Predicatori fondamentalisti erano ospiti abituali dell’Istituto così come militanti tunisini, algerini, marocchini. Documenti contraffatti, fondi e reclute da Milano andavano ad alimentare i gruppi jihadisti dall’Algeria al Pakistan e all’Iraq, dove diversi terroristi reclutati a Viale Yenner compivano azioni suicide. A partire dalle fine degli anni ’90, affiliati alla Moschea di Viale Yenner hanno stabilito e preso possesso in Moschea a Como, Gallarate, Varese, Cremona e sono stati coinvolti in attività criminali, incluso il furto di armi a Torino e a Bologna la maggioranza dei “clusters” sorvegliati e smantellati dalle Autorità italiane in tale periodo possedeva caratteristiche simili.
Tuttavia negli ultimi anni i fenomeni di radicalizzazione tra le Comunità musulmane immigrate sono ricomparsi nuovamente in misura diffusa, con arresti nel 2012 e nel 2013 di immigranti marocchini a Brescia e a Milano, nel 2013 ancora di altre persone di origine marocchina nella regione di Brescia e con la scoperta di jihadisti genovesi uccisi in Siria.
Questi casi si situano in una tendenza al radicamento jihadista in Italia che si è affermata più lentamente che in altri Paesi europei. Il ritardo è dipeso da fattori demografici dato che l’immigrazione su larga scala da Paesi Musulmani verso l’Italia si è verificata solo a partire dalla fine degli anni ‘80 e inizio degli anni ’90 e quindi tra i venti e quarant’anni più tardi che in Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda.
Una seconda generazione di Musulmani nati in Italia ha raggiunto la maturità solo in questi anni. Uno studio importante effettuato da un ricercatore del Kings College di Londra, ha dimostrato che percentuali statisticamente significative di queste centinaia di migliaia di giovani uomini e donne, e delle migliaia di convertiti all’Islam abbracciano idee radicali, sostengono la violenza, il martirio, giustificano il terrorismo, sono in altissima percentuale antisemiti e auspicano la distruzione di Israele. Tutto ciò contribuisce a un contesto diversificato e frammentato del jihadismo in Italia. L’emergere di jihadisti “home-grown” nati e formati in Italia, non significa che i network tradizionali sono stati completamente soppiantati, un certo numero di tali network sono stati indeboliti da arresti ed espulsioni durante gli ultimi 15 anni, ma sono sempre attivi. Essi interagiscono sulla rete, sono sparsi attraverso il Nord Italia, a Milano, a Genova, Bologna e nelle Comunità rurali. La loro presenza è documentata anche in Italia centrale e Meridionale. In genere non sono stati direttamente coinvolti in episodi di violenza, e limitano la loro attività a una presenza spesso ossessiva sulla rete, disseminando materiale che va dalla diffusione di teorie teologiche fondamentaliste all’incitamento e alla radicalizzazione con connotazioni più operative.
In conclusione, i Paesi europei devono affrontare la sfida del “jihadismo europeo”, sia sul piano interno che nella loro politica estera e di sicurezza, con una strategia che garantisca gli equilibri regionali soprattutto nel Golfo, relazionandosi con chiarezza a Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iraq da un lato – come ha mostrato di fare il Presidente Trump nella recente visita a Riad – e allo stesso tempo contenendo le ambizioni iraniane e la pesante interferenza di Teheran nell’arco di crisi che va dallo Yemen, all’Iraq , alla Siria e al Libano. E’ impossibile un serio impegno dei Paesi Arabi senza contrastare le forze che promuovono una radicalizzazione globale nel mondo islamico. Esse appartengono non soltanto alla realtà sunnita, ma in misura spesso più aggressiva alla realtà Sciita , guidata e sostenuta dall’Iran.