Le dinamiche diplomatiche nella lotta al terrorismo
Università Bocconi, 7 Marzo 2016
Sul titolo di questo convegno, “La guerra al terrore”, alcune domande sorgono spontanee: le mutazioni avvenute dall’11 settembre 2001 con la miriade di entità Jihadiste a matrice sunnita, sciita, wahabita, salafita hanno ora acquisito con lo Stato islamico dimensione nettamente diversa? La natura dell’Isis, la sua capacità di attrazione, di impatto comunicativo e politico nella società occidentale ,nell’Islam europeo, e nei paesi del “Grande Mediterraneo” hanno trasformato la lotta al terrore in una vera “guerra”? I parametri concettuali e normativi di questa sfida destinata a protrarsi nel tempo possono continuare ad essere quelli di un’“interpretazione classica” delle norme internazionali? O esistono nuovi presupposti per inquadrare la collaborazione internazionale contro l’Isis, individuare strategie di “soft” ma anche di “hard power”, prepararci a un’eventualità – per quanto poco gradita alle nostre sensibilità – di “guerra” alla quale siano applicabili strumenti legali e operativi che possono anche discostarsi da quelli tipici dell’antiterrorismo?
La natura dell’Isis merita, in primo luogo, un’approfondita riflessione; così come la capacità di colpire delle organizzazioni jihadiste e degli individui affiliati all’Isis. Si tratta soprattutto di prevenire le cause della radicalizzazione e di seguirne da vicino le dinamiche.
1. NATURA DELL’ISIS E SUE CONSEGUENZE
Nel giugno 2014 lo Stato islamico, dopo aver dichiarato il “Califfato”, è riuscito ad impadronirsi di Mosul. Un colpo di importanza strategica tale da creare subito grandissime preoccupazioni per la sopravvivenza dello Stato iracheno. Le capacità di reazione di Baghdad si erano rivelate del tutto inadeguate, nettamente al di sotto delle pur scettiche valutazioni che ne davano i Paesi occidentali coinvolti nella ricostruzione istituzionale e di sicurezza del paese.
Abu Bakr al-Baghdadi si era proclamato leader nel maggio 2010. Ma solo nel luglio 2014 aveva acquisito un’ampia visibilità parlando per Ramadan alla Grande Moschea al-Nuri a Mosul.
La scarsa conoscenza e sottovalutazione dello Stato Islamico era, fino a quel momento, forse comprensibile: si trattava, ai nostri occhi, di una realtà di eremiti fanatici, in regioni nelle quali pochi erano andati e dalle quali pochissimi erano tornati; isolata dai media. Tutto è rapidamente cambiato. I crimini orrendamente spettacolari, lo sfruttamento del web, l’addestramento militare, la creatività nel generare sempre nuove risorse finanziarie si sono combinati con l’estremismo religioso e messianico, l’assoluto rifiuto del negoziato e del dialogo; la volontà di genocidio. Un fondamentalismo che rende l’Isis “costituzionalmente” incapace di evolvere anche se minacciato di estinzione perché il Califfato è l’unico rifugio dei veri musulmani.
L’Isis rappresenta così una variante ideologicamente distinta nell’Islam. Su tutto prevale il cammino individuale verso il Giorno del Giudizio. L’Occidente è il principale nemico. Conoscitori del mondo musulmano ritengono che l’ascesa dello Stato islamico non somigli tanto all’affermazione di movimenti islamisti pur non alieni dal terrorismo, come la fratellanza musulmana nell’Egitto di Morsi; quanto piuttosto a fenomeni di sottomissione collettiva verificatisi in Occidente ad opera di psicopatici, come David Koresh e Jim Jones, leaders dei “Davidians” e del “Peoplès Temple”, istigatori di crimini rituali e suicidi collettivi.
Il Qaedismo ha ispirato lo Stato Islamico. Ma ne viene sorpassato. Bin Laden vedeva la sua azione come prologo ad un Califfato che egli non si aspettava di realizzare. La sua organizzazione era flessibile; operava in cellule autonome, geograficamente disperse. Lo Stato islamico dispone invece di un territorio , di una sua struttura di “Governo”, una burocrazia civile, un apparato militare, un’articolazione territoriale suddivisa in Province organizzate. Quindi il Califfato prende forma.
A livello dottrinale, gli aderenti allo Stato islamico non sono certo impressionati dal poter apparire epigoni di un pensiero medioevale , palesemente contraddittorio con una loro partecipazione attiva, intellettualmente evoluta ed economicamente affermata, alla società contemporanea. I seguaci dell’Isis vivono nella modernità e ugualmente la disprezzano e la deridono; insistono che non si allontaneranno mai dei precetti radicati nell’Islam dal profeta e dai suoi primi seguaci. Parlano spesso con simboli e allusioni, strane e antiquate per i non credenti, ma aderenti alle tradizioni e ai testi dell’Islam delle origini.
È vero che lo Stato islamico attrae anche Foreign Fighters fragili psicologicamente, con conoscenze religiose superficiali emarginati e inclini alla violenza. C’è tuttavia chi osserva che l’essenza dell’Isis è “profondamente islamica”, e che la religione affermata deriva da una coerente e approfondita lettura dell’Islam.
Ogni decisione, legge, annuncio segue puntigliosamente, nei dettagli, una precisa linea teologica, quella del “al salf al salih” del Profeta e dei suoi primi seguaci.
Secondo l’insegnamento di Abu Musàb al Zarqawi e Abu Muhammad al Maqdisi, due riferimenti essenziali di un’ideologia qaedista ripresa dallo Stato islamico, negare la santità del Corano e l’insegnamento di Maometto è una gravissima apostasia. Anche altri comportamenti deprecabili allontanano il musulmano dall’Islam: le abitudini della vita Occidentale e persino la partecipazione alle elezioni, atto di apostasia.
Altrettanto inappellabile è la condanna degli sciiti. Essi innovano al dettato del sacro Corano negandone la perfezione originaria. Ciò significa, secondo il credo dello Stato Islamico ,che i circa 200 milioni di sciiti esistenti al mondo devono, perire; così come ogni governante musulmano che anteponga leggi fatte dall’uomo alla legge divina della Sharia. Seguendo la dottrina del “takfiri” (infedele) lo Stato islamico si propone di purificare il mondo uccidendo grandi quantità di persone. Occidentali e musulmani apostati sono le vittime designate. I cristiani sarebbero risparmiati purché si sottomettano esplicitamente e nei loro comportamenti, come consentito dal Corano.
La caratterizzazione dello Stato islamico no può non rilevare per le iniziative politiche e il quadro giuridico della collaborazione internazionale contro l’Isis. Lo Stato islamico può coincidere con il Califfato proclamato da al Baghdadi, e far leva su tale richiamo ideologico, solo a condizione di avere una base territoriale. I Califfati non esistono in clandestinità. Le alleanze dichiarate allo Stato islamico da numerose altre organizzazioni jihadiste sparse per il mondo, sono strettamente legate alla credibilità del “Califfato” a base territoriale. Per questo motivo da un anno a questa parte la leadership dell’Isis ha investito tanto sulla Libia, quale possibile e necessaria alternativa a un eventuale ripiegamento dalla Siria e dall’Iraq. In questa situazione, non si dovrebbe forse riconoscere che la lotta all’Isis deve essere perseguita da una “coalition of the willing” legittimata non soltanto dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro il terrorismo, ma anche in senso più ampio da un uso della forza consentito a titolo di legittima difesa dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite?
Ugualmente, l’aumento della capacità offensiva da territori completamente o parzialmente controllati dallo Stato islamico – una minaccia diretta al nostro paese proviene ormai dalla Libia – non dovrebbe accrescere la consapevolezza dell’opinione pubblica e del mondo politico italiano e Occidentale che ci troviamo in una vera “situazione di guerra”?
2. LA COLLABORAZIONE EUROPEA E INTERNAZIONALE
Nell’UE la collaborazione antiterrorismo ha avuto accelerazioni dettate dagli eventi, in particolare dopo gli attentati che hanno colpito la Francia negli ultimi quindici mesi. Essa risale alla metà degli anni Settanta con scambi di informazione, cooperazioni investigative e giudiziarie. Viene poi strutturata in uno dei tre pilastri istituiti dal Trattato di Maastricht, quello di Giustizia e Affari Interni. Passo ulteriore, il Trattato di Amsterdam istituisce una “area di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione”. Come risultato di Amsterdam, i paesi Shengen condividono un “acquis communautaire” su diritto d’asilo, immigrazione, cooperazione giudiziaria: le nuove, responsabilità europee, ovviamente, divengono nettamente più rilevanti dopo l’11 settembre 2001. Il Consiglio Europeo del 2004 adotta così il programma dell’Aia, mentre il Trattato di Lisbona, abolendo il sistema “a pilastri” di Maastricht, introduce il settore “giustizia e affari interni” nel mainstream decisionale europeo.
Per venire agli ultimi sviluppi più significativi, vale la pena ricordare il Consiglio GAI del 20 novembre scorso dove si constata che alcuni dei terroristi di Parigi si sono recati in Siria o ne sono venuti senza essere individuati, il che dimostra carenze gravi nei controlli alle frontiere esterne. È quindi necessario compiere sforzi su due fronti: individuazione dei combattenti terroristi stranieri; controlli sistematici delle basi di dati SIS II – Sistema di Informazione Schengen di seconda generazione – e Interpol alle frontiere esterne. Nonostante indicatori comuni di rischio siano ora usati dalla maggior parte degli Stati membri, i controlli delle persone che usufruiscono della libera circolazione in Europa appaiono ancora troppo lacunosi. Si dovrebbe ottimizzare l’uso del SIS II, anche basandosi sulle esperienze acquisite e definendo un approccio comune.
Tenuto conto dell’evolvere della minaccia, il 20 novembre gli Stati membri si sono impegnati ad “attuare immediatamente le necessarie verifiche sistematiche e coordinate alle frontiere esterne, anche su persone che godono del diritto di libera circolazione”, cosa che è giuridicamente possibile per un periodo di tempo determinato. I controlli devono essere pertanto aumentati al 100 %. Cosa serve per far sì che gli Stati membri attuino controlli sistematici alle frontiere esterne? Quali le possibilità di partenariati con la Commissione, gli altri Stati membri ed il settore privato? Lo scambio di informazioni è in atto a tutti i livelli, ma si può fare molto di più. Nelle conclusioni del 20 novembre viene chiesto agli Stati membri di intensificare tale processo, accelerando il percorso della direttiva sulle armi da fuoco, del programma EMPACT European Multidisciplinary Platform against Criminal Threats) nel quadro Europol, della direttiva PNR (Passenger Name Record). È essenziale dialogare con le aziende che operano su Internet, concentrarsi maggiormente su individuazione e rimozione dei contenuti di carattere estremistico e sullo sviluppo di efficaci contro argomentazioni.
La Commissione deve dare carattere prioritario alla lotta contro la radicalizzazione, con misure concrete: un quadro orientativo nell’istruzione per prevenire la radicalizzazione, il sostegno a iniziative guida in settori diversi (istruzione, cultura, sport, occupazione, prestazioni sociali, sicurezza) nell’occupazione, con coordinatori per l’antisemitismo e l’intolleranza.
Dopo l’attentato nel Sinai, la sicurezza aerea, in particolare in Medio Oriente e Nord-Africa è fra i primi punti all’ordine del giorno dell’UE e va potenziato l’impiego degli strumenti e delle agenzie del settore GAI nella regione. Il commissario Avramopoulos ha recentemente sottolineato come la creazione dell’European Counter Terrorism Centre all’indomani della strage del Bataclan sia una essenziale priorità strategica, con obiettivi molto chiari: foreign fighters – si contano cinquemila cittadini europei nelle formazioni terroristiche in Siria e Iraq – intelligence, finanziamenti, propaganda e estremismo, traffico di armi, prevenzione.
3. CONTESTO POLITICO E NORMATIVO
Immediatamente dopo la seconda grande strage di Parigi nel Novembre scorso al Bataclan e in Gennaio a Charlie Hebdo e all’Hyperkasher per le quali la risposta si è mostrata del tutto insufficiente ,con gravi lacune informative e strutturali, il Governo francese ha reagito con un insieme di misure assai rilevanti: sotto il profilo costituzionale – stato di emergenza – dei diritti della persona – revoca della cittadinanza, limitazioni alla privacy – dei poteri di polizia – perquisizioni e stati di fermo – degli equilibri tra esecutivo e ordinamento giudiziario – con riforme riguardanti le indagini e le autorizzazioni a procedere. Hollande ha parallelamente disposto lo spiegamento della portaerei Charles de Gaulle nel teatro operativo siriano, una forte intensificazione dei bombardamenti francesi in Siria contro lo Stato Islamico, in particolare nel quadrante orientale attorno a Raqqa. Per far questo la Francia ha ottenuto la significativa collaborazione militare della stessa Germania, che ha inviato unità di appoggio alla portaerei francese, e si è mossa nel quadro di una intensificata campagna anti Isis guidata dagli Stati Uniti in Siria e in Iraq.
“La Francia è in guerra contro lo Stato islamico” ha subito dichiarato Hollande. Il suo primo Ministro Manuel Valls ha confermato tale impostazione replicando polemicamente ad alcuni “distinguo” del Presidente Renzi. La risposta francese all’aggressione dello Stato Islamico è parsa coerente, sia sul versante politico sia su quello militare, con la nozione di “stato di guerra”. Certo, Parigi si è ben guardata dall’invocare l’attivazione dell’art. 5 del Trattato di Washington, come sarebbe stata conseguenza logica se non avesse prevalso nelle valutazioni francesi la realistica considerazione che ciò avrebbe aggiunto poco o niente sul piano militare, dato il già attivo coinvolgimento americano, mentre avrebbe fatto sicuramente emergere tensioni e incertezze – pensiamo alla situazione politica italiana – in diversi paesi dell’Alleanza. Resta il fatto che lo “stato di guerra” è stato pronunciato con decisione e senza nuances dal Presidente Francese, ha fornito il presupposto per rilevanti misure di emergenza, e si è tradotto nell’immediato rafforzamento del dispositivo militare fuori e dentro i confini nazionali.
Perché la Francia ha voluto legare a uno “stato di guerra” che non poteva aver alcun destinatario “statuale” nel senso classico del termine, la sua reazione ai fatti del 13 Novembre, quando era già “in fieri” la Risoluzione n.2249 del Consiglio di Sicurezza ? Le Risoluzione legittima perfettamente “gli Stati Membri che hanno la capacità di farlo a prendere tutte le misure necessarie, in coerenza con il diritto Internazionale, in particolare la Carta delle Nazioni Unite, così come con i diritti umani ecc…” . È stata evidente la motivazione politica tesa a coinvolgere l’opinione pubblica nel resistere e sconfiggere la minaccia posta da Daesh alla sicurezza e alla libertà di ogni cittadino francese ed europeo. Si può tuttavia ragionevolmente ritenere che il richiamo alla Carta delle Nazioni Unite sia stato un richiamo preciso all’art. 51 sulla legittima difesa.
Il “diritto di rispondere in modi e tempi adatti” contro lo Stato Islamico, in coordinamento con le Autorità di Tobruk, è stato invocato dal Presidente el-Sisi quando sono stati bombardati ripetutamente campi e postazioni dell’Isis in Libia, a Derna, a metà febbraio 2015 dopo la decapitazione di ventun egiziani copti. L’intervento è stato immediato, senza attendere né richiedere autorizzazioni delle Nazioni Unite; anche se il Presidente francese aveva subito sostenuto la richiesta del collega Egiziano di convocare il Consiglio di Sicurezza per discutere la situazione in Libia e adottare nuove misure: ma solo dopo, e non prima dei bombardamenti. Aerei egiziani ed emiratini avevano attaccato nell’agosto precedente formazioni Jihadiste di Alba Libica.
Nell’estrema complessità di situazioni giuridiche e operative che si stanno determinando nella “guerra al terrore”, un dibattito si è sviluppato nel corso degli ultimi due anni in un paese Nato, la Turchia, che è certamente in prima linea: per i ripetuti attacchi rivendicati dall’Isis sul territorio nazionale ; in Iraq, a Mosul ,con la cattura di 49 ostaggi tra cui il Console Generale – liberati dopo un delicatissimo e controverso negoziato - e con oltre trenta camionisti turchi presi dall’Isis; con crescenti avvertite dalle Turchia sui propri confini con la Siria, a causa dell’Isis e della Russia.
4. IL DIBATTITO SULLA LEGITTIMA DIFESA
Ci si è chiesto se Ankara abbia il diritto di usare la forza in Iraq e in Siria in difesa dei propri connazionali e interessi vitali, quale “variante” del diritto di legittima difesa. Precedenti sarebbero il tentativo, anche se fallito, di Carter di recuperare gli ostaggi americani a Teheran nel 1980, l’esfiltrazione di forze speciali britanniche dalla Libia nel 2011 (con contributo italiano). Secondo questa tesi la comunità internazionale starebbe per lo più acconsentendo all’impiego “non consensuale” della forza – cioè indipendente dalla volontà dello Stato dove avviene l’operazione- quando i connazionali si trovino difronte a minaccia grave e immediata, quando il paese che li ospita è impossibilitato o non impegnato a salvarli, e quando l’intervento sia specificamente limitato al salvataggio e non serva da pretesto. Tutte condizioni non certo agevoli da stabilire con sufficiente chiarezza, soprattutto la seconda, sulle intenzioni e capacità dello Stato dove avverrebbe l’intervento.
Michael Walzer e Jeff McMahan, due autorità nel pensiero sulla legittimità della guerra, hanno scritto recentemente della guerra all’Isis. Rielaborando precedenti impostazioni – ad es. nel suo lavoro Just and Unjust Wars – Walzer distingue tra “just war” e “just policing”, la prima categoria essendo riferita a principi applicabili a guerre interstatuali; la seconda – just policing – alla lotta al terrorismo. L’autore statunitense riconosce che l’Occidente dispone di una “giusta causa” nell’uso della forza contro l’Isis. Tuttavia egli ritiene che si tratti di una “Unjust War” perché essa non ha alcuna possibilità di successo , mentre la vittoria è per Walzer condizione essenziale affinché la “Giustizia” possa essere affermata con lo strumento estremo della guerra. E non basta una qualsiasi vittoria. La Guerra giusta, per essere tale, deve concludersi con un esito giusto. Ciò non corrisponde a quanto sta avvenendo con i bombardamenti perché una conclusione del conflitto, confermando il regime di Assad, accentuerà l’emarginazione sunnita, e produrrà ulteriori problemi.
Quanto alla guerra al terrore nei confini nazionali, Walzer insiste che il “just policing” deve nettamente differenziarsi dalla “just war” attraverso una più stretta aderenza ai principi delle libertà civili e dello Stato di Diritto propri alle democrazie occidentali. La tesi di Walzer sull’impossibilità di una Just War contro l’Isis è stata criticata ad esempio da Jeff McMahan che sostiene si tratti invece di una guerra legittimata non tanto dalla prevedibile reazione alle stragi di Parigi, quanto piuttosto dal fine che la comunità internazionale si pone: l’eliminazione delle sofferenze imposte dallo Stato Islamico alle popolazioni sotto il suo controllo. Ma le sostanziali differenze tra i due autori permangono: per Walzer l’accentuazione va alla stabilità regionale, mentre per McMahan allo scopo umanitario. Altri giuristi pure di scuola anglosassone insistono sul diritto di legittima difesa dello Stato francese dopo l’eccidio del Bataclan, attuato nel rispetto dello jus in bello, e delle convenzioni di Ginevra.
Sino alle mutazioni del mostro Isis, non vi erano precedenti di “semi statualità” con controllo di territorio e popolazione nell’esperienza contemporanea della lotta al terrore. E’ giuridicamente corretto, ammesso che sia politicamente utile, invocare il principio di legittima difesa nei confronti dell’Isis, ed applicare oltre che uno specifico Jus ad Bellum, anche lo Jus in Bello?
Secondo una visone prevalente la costruzione dell’art. 2 e dell’art. 51 dello Statuto dell’Onu legittimerebbe l’uso della forza nel difendersi da attacchi armati effettivamente avvenuti, e di rilievo.
Nei rapporti tra Stati, la dottrina e la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia hanno definito tutta una serie di fattispecie e condizioni per risposte armate di singoli Stati o in forma collettiva. La tendenza emersa ad esempio nei giudizi della CIG sui casi Nicaragua e Oil Platform è parsa restringere la latitudine della risposta in autodifesa quando veri e propri attacchi armati non si siano ancora verificati, o quando l’attacco da parte di organizzazioni rivoluzionarie o terroristiche non sia immediatamente riconducibile a uno Stato, soggetto di diritto internazionale.
Peraltro è stata proprio la legittima difesa ad essere invocata dal presidente Clinton il 26 giugno 1993 al momento del lancio di 23 missili da crociera contro Baghdad, in risposta al fallito attentato all’ex Presidente Bush durante la sua visita in Kuwait poche settimane prima. Madeleine Albright, all’epoca Rappresentante Permanente americano alle Nazioni Unite, aveva esplicitamente motivato l’attacco poche ore dopo sulla base dell’art. 51. L’11 Settembre 2001 apriva un ancor più intenso dibattito circa il condizionamento del Diritto di legittima difesa alla “natura statuale” dell’entità all’origine dell’atto terroristico.
La CIG ha conservato a lungo tale impostazione.
Lo ha fatto nella sua Advisory Opinion sulle Conseguenze della Costruzione di un Muro nel Territorio Occupato Palestinese, nonostante forti obiezioni siano emerse nella stessa CIG: la “condizione della Statualità”, ha sottolineato l’influente Giudice Simma nella sua Opinione Separata nel caso Congo v. Uganda, “deve essere urgentemente riconsiderare dalla Corte dopo… l’11 Settembre; e la tesi che l’art. 51 riguarda misure di difesa contro gruppi terroristici è recepita più favorevolmente dalla Comunità internazionale che non altre riletture estensive dello Statuto delle Nazioni Unite”.
Tale posizione appare anticipatrice di un’impostazione che assume sempre più consistenza nei confronti dello Stato Islamico: sia per il ripetersi non contestato del richiamo all’art 51 quale legittimazione di azioni militari effettuate senza, o comunque al difuori dell’ambito geografico che include Iraq e Siria ma non Libia, delle risoluzioni ONU; sia per l’evolversi delle caratteristiche, in particolare quelle di controllo del territorio e di organizzazione semi statuali, proprie all’Isis.
5. TERRORISMO E SICUREZZA PER L’ITALIA
Il Governo italiano, secondo molti osservatori, avrebbe sottostimato il prevedibilissimo “tsunami” migratorio nel 2014 e nel 2015: stiamo ora sottostimando la minaccia Jihadista sul nostro territorio? Nel corso del 2015 attacchi quasi simultanei sono stati rivendicati dall’ISIS in tre diversi continenti: in Europa a Lione, in Africa a Tunisi, in Medio Oriente a Kuwait City; sono stati colpiti Francia, Turchia ,Indonesia, Nigeria, Kenya, Libia . Vi sono stati massicci attacchi nel Sinai, e persino a Gaza, dove il controllo di Hamas sembrava fa incontestato, e dove lo Stato islamico è penetrato con un’offensiva mediatica – dichiarazioni sui social network e campagne web – per affermarsi come “interprete esclusivo della Sharia”. Anche in Siria – sull’onda lunga dell’attendismo occidentale e delle nuove regole del gioco imposte dalla Russia – si è consolidato un nuovo fronte jihadista tra al-Qaeda, Al Nusra e Ahrar al- Sham per il controllo di nodi strategici.
Gli obiettivi – oltre a quelli “fisici” che hanno provocato tragedie e morti, sono chiari: impressionare il pubblico, “testare” le tecniche dell’Isis nel portare la minaccia terroristica ovunque, sfruttare le capacità di radicalizzazione del messaggio estremista via internet per reclutare nuovi seguaci. Circola l’ipotesi in ambiente che il nostro paese sia stato fino ad ora “risparmiato”, ma, sia chiaro, per motivi diversi dalle operazioni di Polizia che hanno individuato alcune cellule di terroristi in Lombardia, Lazio e Campania: queste cellule sono solo la punta dell’iceberg di una radicalizzazione assai più diffusa nel nostro Paese. Le organizzazioni terroristiche avrebbero avuto convenienza a concentrarsi in questa fase su Francia e Belgio, lasciando l’Italia – come già fece il terrorismo palestinese tra gli anni ’70 e ’80 – in una sorta di “retrovia logistica”. Siamo nelle pure supposizioni. Tuttavia la bonaccia non deve illudere. L’estrema “precarietà” della sicurezza nel Mediterraneo e in Medio Oriente ci coinvolge direttamente, mentre è la grande informazione pratichi in materia di sicurezza – come anche di immigrazione – una “politica placebo”, anti-allarmista, così da evitare fastidiose pressioni dell’opinione pubblica.
Individuo in particolare quattro minacce:
A) la distruzione dell’integrità territoriale in Iraq e in Siria sta avendo effetti domino in una regione di prioritario interesse per la stabilità dell’occidente;
B) i “successi” dell’Isis producono sempre nuovi adepti. Circa 30.000 giovani da oltre cento paesi, per quasi un terzo di occidentali, sono partiti per la Siria e sono entrati nelle formazioni estremiste, acquisendo esperienze di combattimento e di proselitismo, con la probabile prospettiva di rientrare poi in Europa, pronti a riutilizzare questo “know-how” nei paesi di provenienza;
C) lo Stato islamico si collega, in modo molto più rapido ed efficace di quanto abbia mai saputo fare qualunque altra formazione terroristica, con altri gruppi estremisti nel mondo, in Algeria, Libia, Nigeria, Egitto, Somalia, Afghanistan, gruppi che ne emulano la ferocia, gli obiettivi, i metodi e le capacità comunicative e di proselitismo;
D) il messaggio dell’ISIS è un potente strumento di radicalizzazione nelle comunità islamiche, in grado di stimolare – anche attraverso il web – atti di terrorismo individuali o di piccoli gruppi in Europa, Usa, Canada, Australia. Diversi arresti hanno impedito altri attacchi, ma è inevitabile che il fenomeno si espanda.
La minaccia all’Europa è ancora più articolata: al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), con una lunga storia di attentati, il più spettacolare e potenzialmente destabilizzante è quello contro il Ministro dell’Interno Saudita; al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), con armi di ogni tipo provenienti dagli enormi arsenali libici; al-Qaeda Senior Leadership (AQSL), attiva in Afghanistan e nelle Federally Administered Tribal Areas pakistane; la rete creata in alcune impervie regioni afghane dal leader qaedista di origine qatarina al-Qahtani; il Gruppo Khorasan con pakistani operanti in Siria per sostenere al-Nusra contro Assad, e per creare “santuari” in Siria dai quali preparare attacchi contro paesi occidentali; Boko Haram in Nigeria, responsabile di migliaia di vittime, della distruzione di decine di Chiese cristiane, e di centinaia di rapimenti anche di italiani; organizzazioni terroristiche come Ansar al–Sharia, radicata in Libia a fianco dello Stato Islamico e al-Shabab originaria del Corno d’Africa; la galassia del terrore riconducibile all’universo scita, sostenuto direttamente dall’Iran, come Hezbollah, che dispone non solo di decine di migliaia di miliziani in Libano, Siria, Iraq, ma può anche contare su una rete di agenti estesa sino all’America Latina e al Centro America.
Nessun analista dissente ormai da quanto ha scritto tempo fa David Gardner sul Financial Times: “Anni di terrore dell’ISIS sono davanti a noi …”. E non solo dell’ISIS, come ho spiegato: questo quadro allarmante dovrebbe dare la dimensione di una minaccia estremamente concreta e diretta alla nostra sicurezza in Italia.
Cosa dovremmo fare?
1) anzitutto maturare una strategia di politica estera, di sicurezza interna, e una precisa volontà politica con una completa informazione al pubblico;
2) destinare “risorse decisamente straordinarie” alle strutture di intelligence e di sicurezza;
3) rafforzare – questo è un aspetto di fondamentale importanza – la collaborazione e la coesione con tutti i Governi stranieri che condividono i nostri stessi interessi di sicurezza;
4) agire per un concreto sostegno a una “transizione” verso lo Stato di Diritto in tutti i Paesi maggiormente colpiti dal fenomeno jihadista, perché la situazione di oggi è figlia proprio del “disinteresse” degli ultimi anni per ciò che accadeva in quei Paesi, solo apparentemente “lontani”;
5) ultimo punto solo in ordine di elenco, ma non meno importante, “evitare la diffusione dell’intolleranza”, della propaganda all’odio, della predicazione e della educazione settaria, in una parola, della radicalizzazione tra le comunità immigrate in Italia. Le misure d’interdizione devono collegare uffici, agenzie, programmi e collaborazioni internazionali, per aggredire networks, flussi finanziari, e l’intera pluralità di soggetti coinvolti nei traffici di migranti, sempre più interdipendente con le organizzazioni criminali del terrorismo.
6. LA QUESTIONE MUSULMANA IN ITALIA E IN EUROPA
Sono ancora pochissimi gli studi autorevoli sulla questione musulmana in Italia. Sono pochi gli analisti che abbiano affrontato con rigore scientifico la realtà delle comunità musulmane residenti nel nostro paese, immigrate recentemente o residenti da tempo. Un tema trattato con ricorrente frequenza nell’ultimo anno e mezzo è quello della radicalizzazione. Nonostante sia stata oggetto di un certo numero di lavori e convegni di considerevole interesse, la questione non si è ancora trasferita con la necessaria urgenza e priorità nelle sedi parlamentari, né ha prodotto misure organiche di tipo legislativo o amministrativo. Ne deriva una carenza allarmante di conoscenze sull’Islam in Italia che confonde persino gli addetti ai lavori del nostro sistema scolastico. Si prendono decisioni e si manifestano atteggiamenti palesemente ispirati da concezioni non informate o strumentalizzate, avulse dalla realtà attuale, da pregiudizi e partiti presi, da una mentalità dialogante o da chiusure che nulla hanno a che vedere con una matura preparazione sui valori della tolleranza, dello Stato di Diritto, di promozione delle libertà fondamentali stabilite dalla nostra Costituzione. Mentre sono questi valori che devono uniformare l’insegnamento curricolare nella scuola italiana, il rapporto tra docenti e famiglie, le relazioni tra gli studenti.
La latitanza di una narrazione equilibrata pregiudica gravemente il rapporto tra i cittadini che radicano una propria identità nella tradizione giudaico cristiana e coloro che appartengono a un’ identità musulmana nelle sue differenti provenienze e declinazioni culturali. I ricercatori e gli operatori sociali che entrano in contatto abitualmente con le Comunità musulmane in Italia e in particolare con i loro leaders religiosi, constatano spesso quanto sia diffusa in tali ambienti un’informazione del tutto distorta, strumentale, e radicalizzata delle vicende anche le più drammatiche che hanno segnato il terrorismo Jihadista negli ultimi quindici anni. Da rilevazioni empiriche ulteriormente aggiornate ancora nelle ultime settimane, risulta che una percentuale molto alta, superiore a un terzo di quanti frequentano centri di aggregazione tra le Comunità musulmane, si dichiarano ad esempio convinti che: le Torri gemelle sono state distrutte da un complotto sionista e americano; che l’attentato al Bataclan a Parigi è stato o perpetrato da agenti dei servizi segreti Occidentali, o che non sia mai avvenuto ma sia stato semplicemente una costruzione teatrale, con figuranti che si sono finti vittime, per diffondere l’odio contro i musulmani.
Molto diffuse, anche se probabilmente non maggioritarie, le opinioni di quanti tra i musulmani in Italia sono “comprensive” verso le organizzazioni Jihadiste, incluso lo Stato islamico, che attaccano simboli occidentali, che reagiscono alle offese al Profeta, che lottano contro “gli infedeli”.
Rilevazioni con risultati simili hanno caratterizzato importanti ricerche fatte da diversi anni in Francia. L’esperienza francese è particolarmente significativa per una serie di motivi che vanno bene al di là del fenomeno, di per se già assai rilevante, della rapida crescita demografica delle Comunità musulmane residenti nel nostro Paese. È un’esperienza significativa perché si sviluppa sul piano del dibattito identitario, delle politiche di integrazione, dell’influenza che hanno avuto dagli anni ’60 paesi come l’Algeria nella relazione con gli algerini residenti in Francia. È un’esperienza ancor più significativa nella trasformazione identitaria dell’Islam francese e dei rapporti che esso ha sviluppato soprattutto negli ultimi due decenni con il paese di accoglienza.
La Francia conosce i primi attentati a connotazione islamista nel 1986. Pochi anni prima la rivoluzione Komeinista in Iran, rileva Bernard Godard nel suo recente libro “La question musulmane en France”, era già stata vista con preoccupazione per la dinamica che poteva rendere dominante il fattore religioso nei “quartieri difficili”. Nel 1989 Salman Rushdie, colpito dalla fatwa dell’Iman Khomeyni per i “Versetti Satanici” è minacciato e insolentito per le strade parigine. In Algeria, il Front Islamique du Salut (FIS) travolge le forze islamiste tradizionali che si preparano a negoziare una loro moderata presenza nell’arena politica. Alla fine degli anni ’80 sono sempre i fratelli musulmani dell’UOIF (Union des Organisations Islamiques de France) ad essere i potenti porta-bandiera di una “identità musulmana” francese in via di costituzione. Devono passare altri dieci anni perché alla loro presenza si aggiunga quella de “l’Union des Jeunes Musulmans” (UJM) che trovano l’ispiratore del loro primo congresso a Villeurbanne, alla periferia di Lione in Tariq Ramadan, divenuto poi l’intellettuale più conosciuto della fratellanza e legato da stretta parentela al fondatore di quest’ultima, Hassan al Banna.
È dall’inizio degli anni ’90 che l’Islam comincia ad essere vissuto come vera e propria identità francese, soprattutto tra le generazioni nate in Francia. Esso sviluppa così una cultura specifica che attinge alle vicissitudini del mondo arabo-musulmano e al tempo stesso alla cultura democratica e moderna dell’Occidente.
È l’affermazione di un modo di vita nel quale l’etica si combina al modo di vestire, all’alimentazione, alle lotte contro l’islamofobia, alla difesa della Palestina. Come scrive ancora Godard, riferita ai testi sacri, spesso conosciuti sommariamente, questa etica reinventa i valori islamici: la finanza islamica sarebbe una necessità etica per tutta l’umanità, la soluzione a crisi generate da un capitalismo selvaggio, l’identità trova i suoi mezzi di espressione nelle parole d’ordine di un universo politico nel quale essa è apparsa e si è rafforzata.
Dalla metà degli anni ’90 è un “Islam di rottura” che comincia a imporsi in alcuni ambienti. Esso riecheggia ampiamente le tematiche salafite derivate anche dal FIS algerino, che condurranno più tardi numerosi giovani verso la tentazione jihadista. È questo Islam di rottura, secondo lo studioso francese, a occupare uno spazio assolutamente non trascurabile oggi e ad attrarre generazioni che considerano spregevoli e non autentiche le tendenze più moderate predominanti tra gli anni ’60 e ’90.
In ambito confessionale, era convincimento diffuso all’inizio del 2000 che l’Islam francese si sarebbe rapidamente affrancato da una logica comunitaria di attaccamento al paese di origine, alla fedeltà, a un Islam ereditato dalle tradizioni di quel paese. Si pensava che fosse quasi terminato il periodo di un’influenza degli Stati di origine sulle loro comunità espatriate. Ma ciò non è avvenuto. Anzi alcuni di questi hanno sviluppato nuove strategie per rafforzare i legami con le loro diaspore e l’Islam è diventato un cemento particolarmente utile a rafforzare i legami con una comunità di cultura. Nel 2003, grazie alla creazione del Conseil Francais du Culte Musulman (CFCM) il Marocco ha ottenuto un’opzione per la rappresentanza istituzionale dell’Islam in Francia, mentre il sentimento nazionale turco continua ad attrarre nuove generazioni. All’Algeria appartiene infine alla comunità numericamente più forte che è titolare della grande Moschea di Parigi.
Nel radicarsi di un sempre più diffuso, autorevole, politicamente cosciente Islam europeo, peraltro sempre più complesso e con crescente difficolta ad integrarsi, l’esperienza francese non può non costituire un’esperienza estremamente significativa per il nostro Paese in una fase storica che si contraddistingue per fortissimi flussi di immigrazione da regioni musulmane.