Roma, 5 Marzo 2015
I Governi europei si sono impegnati a dare centrale priorità alla libertà’ di religione e di credo nella loro politica estera e di sicurezza. Le direttive emanate nel giugno 2013 sono chiare, circostanziate e vincolanti. Esse entrano in dettaglio nelle modalità di attuazione indicando le denunce e le iniziative da azionare al più alto livello politico, i passi da effettuare affinché le violazioni siano sanzionate dalla Giustizia.
La libertà di religione o di credo – sanciscono le linee guida europee – è un diritto fondamentale e inalienabile di ogni essere umano. E’ diritto universale che salvaguarda il rispetto per la diversità e contribuisce direttamente alla democrazia, allo sviluppo, allo Stato di Diritto, alla pace e alla stabilità.
Le violazioni a tale libertà esasperano l’intolleranza, anticipano e fomentano violenze e conflitti.
Ogni persona ha il diritto di manifestare la propria religione individualmente o in comunità, in luoghi di preghiera, culto, pratica e insegnamento pubblici o privati senza dover temere intimidazioni, discriminazioni, violenze o attacchi.
Le persone che cambiano o lasciano la propria religione, così come coloro che professano un orientamento non credente o ateo, hanno pari diritto ad essere ugualmente tutelate.”
Per “gli Stati parte dell’International Covenant on Civil and Political Rights”, 168 tra cui l’Italia, esiste il preciso obbligo quali parti di un accordo internazionale ratificato, di PROIBIRE ogni “advocacy of religious hatred that constitutes incitement to discrimination, hostility or violence.” Gli Stati parte del Covenant, precisa ancora l’Unione Europea, devono condannare tutti gli atti di violenza e assicurare alla giustizia chi li compie.
Si tratta non solo di principi. Si tratta di specifici, circostanziati, giuridicamente definiti impegni ad agire in ogni situazione nella quale si preannuncino o ancor peggio si materializzino comportamenti lesivi di questa fondamentale libertà, da parte dei Governi, di organizzazioni, di componenti della società civile, con propagande e istigazioni all’odio verso religione e fedi anche politico e di pensiero.
Questi sintetici, ma profondi e comprensivi principi sono stati ribaditi più volte da tutti i Governi europei e nella sede più autorevole, quella del Consiglio dei Ministri degli Esteri del giugno 2013 a Bruxelles.
Verso quel traguardo la diplomazia italiana aveva lavorato molto, portando costantemente il tema della libertà religiosa al Parlamento Europeo, nei Consigli, nei gruppi di lavoro e negli organi della Commissione, di concerto con i Paesi mediterranei dell’UE.
Alle Nazioni Unite abbiamo perseguito lo stesso obiettivo, con lo scopo di radicare il principio della libertà religiosa nel vasto patrimonio di diritti umani riconosciuti con sempre maggiore chiarezza nell’ordinamento internazionale.
Vorrei ricordare l’iniziativa presa il 21 settembre 2012 da Italia e Giordania l’importante incontro a livello Ministri degli Esteri a New York sul tema “La società civile e l’educazione ai diritti umani quale mezzo per promuovere la tolleranza religiosa”. Su quella esperienza si sono poi sviluppate altre iniziative simili, come l’ultima organizzata a livello Ambasciatori dalla Gran Bretagna a New York il 23 ottobre scorso.
A questi esempi, potrei aggiungerne altri di grande portata come la Conferenza organizzata nei giorni scorsi alla Casa Bianca dal Presidente Obama. La quasi totalità dei Governi, e una miriade di ONG espressione di valori consolidati nelle rispettive società civili, riconoscono oggi la libertà di religione e di credo, esattamente nei termini propri alle “Linee guida dell’Unione Europea.
Nonostante questa estesissima affermazione del principio di libertà religiosa, dobbiamo purtroppo constatare che non vi è forse diritto umano più drammaticamente e più costantemente violato di questa libertà.
Il nostro Paese è sempre stato convinto che lo Stato debba non solo “assicurare garanzie legali efficaci e adeguate” alla libertà di religione e di credo.
Siamo soprattutto convinti che “sia sempre lo Stato a dover assicurare la protezione effettiva di tali diritti in tutto il suo territorio”; siamo soprattutto convinti che sia sempre lo Stato a dover “prevenire le violazioni” e a dover “sanzionare le responsabilità” quando tali diritti sono calpestati. Responsabilità precise che ogni Stato si è assunto, aderendo agli strumenti normativi internazionali di cui ho parlato, di agire così al proprio interno. Al tempo stesso, ogni Governo si è impegnato ad agire sul piano internazionale: sia collettivamente, anche attraverso l’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza, sia individualmente nelle relazioni bilaterali.
Se alle dichiarazioni e agli impegni assunti avessero corrisposto fatti e concrete azioni politiche, le orribili violenze che stiamo vivendo – e le più mostruose sono sicuramente quelle dello Stato Islamico – non ci troverebbero così impreparati. Si vedeva formarsi da diversi anni un’immensa ondata. Ma mentre questa ondata si formava, alle porte di casa nostra, specie negli ultimi due anni, il Governo Italiano era evidentemente impegnato a fare altre cose, tutte certamente importanti, ma non meno importanti che tutelare la sicurezza nazionale e l’area d’influenza del nostro Paese. L’idea che “il medio oriente e il nord Africa non ci riguardino” è un’idea criminale, e inetti sono coloro che dalle Istituzioni la propagandano con dichiarazioni ai mass-media che non fanno altro che dimostrare pressappochismo e totale ignoranza delle più elementari regole di geo-politica internazionale.
Una grande sfida riguarda certamente la radicalizzazione: talvolta solitaria o di piccoli gruppi, peraltro collegati a filiere globali, come avvenuto a Copenaghen, Parigi, Bruxelles, Tolosa; altre volte estremamente ampia e strutturata, mossa da motivazioni religiose, politiche, militari, economiche, legata a ambizioni di predominio regionale o globale. Sono questi i casi dell’ondata di radicalizzazione legata allo Stato Islamico, a Hezbollah, ad Hamas, alla Jihad Islamica, ad Ansar al Sharia, a Boko Haram, agli Shebab, ai Tarik i Taleban, per citare solo alcune parti di un’intera galassia. Sono decine le vittime causate negli ultimi tre anni in Europa da questi fenomeni di radicalizzazione, soprattutto tra le Comunità ebraiche; sono molte decine le vittime occidentali nei Paesi islamici; sono decine di migliaia i cristiani e i musulmani uccisi nel mondo islamico, senza contare l’immane carneficina siriana e irachena.
E’ assolutamente necessario accrescere la consapevolezza dei Governi e delle società civili europee sull’esigenza di sviluppare un rapporto intenso, capillare, profondamente collaborativo con l’Islam europeo.
Credo sia anche necessario tenere ben alta la guardia, e non solo per ragioni etiche ma per il diretto interesse della sicurezza del nostro Paese, sulla soppressione del dissenso politico, sulla compressione delle libertà religiose in Paesi europei, asiatici e africani. L’UE e i suoi Stati Membri non possono anteporre una malintesa “ragion di stato” all’esigenza che sia rispettato lo Stato di Diritto”, ad esempio in un grande Paese europeo come la Russia, dove il principale oppositore politico – Boris Nemtsov – è stato brutalmente eliminato, allungando una scia di sangue già lasciata da giornalisti, oppositori, informatori giudicati scomodi.
Né possiamo tacere, ancora per inaccettabili “ragioni di Stato” quando in Cina si abbattono decine di Chiese protestanti e cattoliche con motivazioni urbanistiche; né tantomeno possiamo autocensurarci per “ragion di Stato” durante le visite ufficiali a livello politico a Teheran, dove ben tre membri di Governo sono andati, nell’ultimo anno e mezzo, forse per “riaprire” il mercato iraniano, ma senza mai richiedere con fermezza garanzie sul rispetto delle decisioni del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, delle Convenzioni ratificate dall’Iran, sulla liberazione dei prigionieri politici, sul ricorso generalizzato alla tortura e alla pena di morte; rassegnandoci ad ascoltare dal capo dell’intelligence iraniana che gli oppositori non sono che dei piccoli gruppi di terroristi da eliminare; vogliamo riaprire i mercati anche a costo di mantenere in funzione i lager? Né la “ragion di Stato” avrebbe dovuto zittire i Governi europei quando nel Gujarat gli Hindu uccidevano duemila musulmani, o in altri Stati indiani vi erano violenze estese contro minoranze cristiane, così come avvenuto anche in altri Paesi asiatici e africani. O passare ancora sotto silenzio l’uccisione del blogger Bengalese Avijit Roy, critico di tutte le religioni e autore di un libro intitolato “Il virus della fede”.
Siamo in molti a essere convinti che una politica estera alimentata da pronunciamenti vuoti, da Guidelines europee discusse per anni e poi inattuate, o addirittura dimenticate – vorrei fare un test tra i principali commentatori di politica estera, per vedere chi se le ricorda in dettaglio senza cliccare su Google – sia la peggior piattaforma possibile per affrontare oggi il problema della radicalizzazione, soprattutto, ma non certo soltanto, nel mondo islamico.
C’è qualcuno che può spiegare come mai i tavoli di consultazione e raccordo con la Comunità musulmana presso il Ministero dell’Interno e presso la Presidenza del Consiglio, fossero caduti in totale disuso da quasi tre anni? E come è stato nell’ultimo anno utilizzato l’Osservatorio sulla libertà religiosa, creato nel 2012 dal Comune di Roma insieme alla Farnesina?
Ho trovato molto importanti sia l’analisi svolta nel Rapporto del dott. Groppi, sia gli interventi che mi hanno preceduto.
Come ho anticipato con un post sui rapporti con l’Islam che ho pubblicato pochi giorni fa sulla mia pagina Facebook, con grande eco e dibattito tra gli utenti, Vorrei ulteriormente sottolineare la concretezza delle tre proposte presentate dall’Imam Prof. Yahya Pallavicini, Vice Presidente del Coreis, al Ministro dell’Interno Angelino Alfano la settimana scorsa. Ritengo anch’io sia essenziale distinguere “tre piste”: la prima, riguardante un’immigrazione che deve essere trattata con umanitaria generosità ma in modo legale e ben regolamentato; la seconda che richiede un impegno deciso e sostenuto al confronto e alla concertazione, e non ad un mero dialogo fine a sé stesso, individuando criteri di legittimazione basati sulla tolleranza, sul riconoscimento vincolante del pluralismo e della completa parità di diritti tra tutti i cittadini; la terza pista che riguarda la formazione, la certificazione e la verifica della missione religiosa e di predicazione.
Quando incontrai al Cairo tre anni fa, all’inizio delle Primavere Arabe, l’Imam Ahmed al-Tayeb fui colpito dalla sua chiarissima enunciazione, in un momento di grande effervescenza delle correnti islamiste e salafite, dei principi costituzionali proposti con la Carta della Grande Università Al-Azhar. Essa contiene, ovviamente con adattamenti alle sensibilità egiziane, il riconoscimento della libertà di religione e di pensiero, della parità tra uomini e donne, dell’aderenza a tutte le norme internazionali sui Diritti Umani.
Ebbene, lo scorso anno Al-Azhar ha avviato un programma di certificazione dei religiosi destinati all’insegnamento e alla pratica religiosa che ha coinvolto 12.000 predicatori, con attenzione particolare a libri di testo e materiale informatico.
L’emergenza della radicalizzazione nel mondo che ci circonda, e ora anche in Europa, si manifesta in forme che hanno sorpreso unicamente in ragione della incredibilmente scarsa conoscenza che la nostra opinione pubblica, e purtroppo lo stesso mondo politico hanno della religione, della cultura, delle realtà dell’Islam.
Si vede l’emergenza dei lupi solitari, delle cellule jihadiste, dei giovani radicalizzati senza ancora cogliere davvero le trasformazioni che stanno producendo questi fenomeni.
Non è il caso di ripercorrere la millenaria storia del Mediterraneo per cogliere quanto grandi siano state – sin dalle alterne fasi di un sempre continuo rapporto tra Venezia e Istanbul – le opportunità offerte dall’Europa dai popoli della sponda Sud del Mediterraneo. Si tratta di un orizzonte di interessi concreti, di collaborazioni economiche, di risorse culturali, umane, materiali, di vitale importanza per l’Italia.
Per cogliere questa opportunità, dobbiamo investire enormi sforzi nel rendere positivo il nostro rapporto con l’Islam, sul piano interno e sul piano internazionale.
Come conclude l’Economist di questa settimana “un’azione ferma dei Governi contro coloro che predicano la violenza è probabilmente utile. E i centri tradizionali di autorità Islamica possono certo fare di più per spiegare la loro interpretazione dell’Islam, e con modalità più attraenti. Ma il dibattito interno all’Islam sulle radici dell’estremismo può non corrispondere necessariamente ai gusti dei Musulmani liberali, o dei politici Occidentali”. Poiché da un lato l’ufficializzazione interpretativa da parte dello Stato può spingere ancor più i jihadisti nella clandestinità. Dall’altro, per alcuni Paesi come l’Arabia Saudita, il percorso di ufficializzazione potrebbe non concludersi in interpretazioni più liberali della Sharia, ma produrre il contrario. Per questo motivo, si deve essere consapevoli dell’enorme investimento politico, culturale, umano che deve coinvolgere l’Occidente.
Eccole allora, come spesso mi piace ricordare, le nostre Termopili, l’ultimo fronte che dobbiamo difendere: i nostri valori. Anzi, neppure i “nostri” valori, ma i valori della Universal Declaration of Human Right. Dialogare non vuol dire “trattare al ribasso sull’identità e l’appartenenza”: quando diciamo che i valori della Carta sono universali, indivisibili e non negoziabili, usiamo parole precise, che hanno un peso, e che dobbiamo difendere senza alcuna esitazione. Grazie a Voi per avermi ascoltato.