Firenze, 28 Marzo 2014
*E’ un piacere essere qui a Firenze per dialogare con un pubblico cosi’ autorevole di un tema vitale per l’economia del nostro Paese, e per quella della Toscana. Sono particolarmente grato al Presidente Guidi e a Voi tutti per questa opportunita’.
*Siamo alla vigilia delle elezioni europee, dove si confrontano ,e certo non solo a Sud delle Alpi, visioni molto diverse: piu’ che su un complessivo processo di integrazione europea che dovrebbe dare all’EU piu’ mezzi nell’affrontare le sfide globali della sicurezza e della pace, il dibattito riguarda la “governance” dell’economia europea, le politiche di crescita, la gestione e il futuro dell’Euro.
*E’ un dibattito nel quale la vostra voce e’ importante e influente perche’ Firenze e la Toscana sono una forza traente in Italia e in Europa per il percorso di internazionalizzazione dei comparti produttivi, sostenuti dall’innovazione, dalla ricerca e dalla formazione dei giovani.
*Statistiche pubblicate nelle scorse settimane indicano ,ad esempio, un andamento piu’ positivo in Toscana che nelle altre regioni delle iscrizioni universitarie; il Rapporto 2014 sulla situazione occupazionale dei laureati presentato recentemente a Bologna segnala che ,su 14.553 laureati dell’Universita’ di Firenze, dopo un anno dalla laurea il 49% ha trovato lavoro, rispetto a una media nazionale del solo 41%;il dato e’ ancor piu’ significativo se a quel 49%si aggiuge il 35%di coloro che non lavorano perche’ impegnati a tempo pieno nei corsi di laurea magistrale; altri dati segnalano per la Toscana una crescente natalita’ di impresa, nonostante perduranti difficolta’ per quanto riguarda aziende in via di liquidazione; e ottimi sono i dati sull’imprenditorialità femminile, ambito nel quale la vostra regione e’ tra le tre piu’ dinamiche.
*Se guardiamo poi all’andamento dell’export toscano nel “quinquennio di crisi” 2009/2013,notiamo una buona ripresa dell’export riferita all’ultimo quadriennio nel suo insieme, dopo la flessione all’ inizio della crisi ;c’e’ stato un aumento medio annuo dell’export attorno al 10%, superiore all’indice nazionale.
*Proprio questa “eccellenza della Toscana” ci porta oggi ad approfondire il quadro complessivo nel quale le imprese si trovano ad esportare e ad investire all’estero, soprattutto nelle realta’ piu’ dinamiche. Realta’nelle quali ho avuto modo di impegnarmi a fondo insieme a molti nostri imprenditori, durante il mio mandato di ministro degli Esteri, con decine di missioni, e altrettante iniziative in Italia destinate ai mercati piu’ promettenti in Asia, Africa, Mediterraneo e Medio Oriente, America Latina. Tra queste, sono particolarmente lieto di aver, in un certo senso, fatto da battistrada in Birmania,Vietnam,Indonesia,Singapore,Brunei,KuwaitMozambico,Angola,Etiopia,Somalia;abbiamo intensificato anche in quell’anno e mezzo le iniziative nei BRICS (Brasile, Russia, Cina, Sud Africa),e nelle nuove situazioni emerse nel Mediterraneo con le primavere Arabe. In questo senso, sono stato, e continuo a essere, partecipe e testimone della grande vitalita’ delle nostre aziende nei mercati emergenti.
*Tocchero’ principalmente i seguenti aspetti:
-A. internazionalizzazione delle nostre imprese durante questi anni di crisi;
-B. opportunita’ e cautele nell’operare sui mercati emergenti;
-C. impulso ai negoziati “macroregionali” per i quali l’orientamento dei nostri imprenditori e’ essenziale per le Autorita’ di Governo.Soprattutto per quanto riguarda il TTIP,UE/ Cina; UE/ Asean; UE/ America Latina.
A.INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE NOSTRE IMPRESE
Circa un mese fa la Banca d’Italia ha organizzato un’importante conferenza in argomento, con la presentazione di studi che hanno alimentato la discussione.
Si e’ partiti dalla premessa, necessaria ma non scontata tra gli economisti, che internazionalizzazione significa non solo l’insediamento di attivita’commerciali e produttive oltre confine, ma anche l’esportazione,e gli investimenti esteri nel nostro Paese.
Una precisazione importante per la realta’ italiana, perche’ le strategie di “internazionalizzazione” devono certamente comprendere la miriade di PMI che esportano senza localizzare investimenti produttivi o commerciali all’estero, cosi’ come le imprese che sono sempre piu’ inserite nelle cosiddette Global Value Chains (GVC).
Sempre circa la perimetrazione del fenomeno, e’da notare che l’internazionalizzazione delle nostre aziende, in costante crescita da due decenni, ha rallentato negli ultimi quattro anni la sua propensione all’investimento produttivo all’estero; assai meno rallentata e’ stata pero’ la tendenza esportativa che anzi, come ho gia’ accennato, ha continuato a rafforzarsi.
L’attivita’ manifatturiera all’estero coinvolge ormai molte nostre PMI, e non soltanto i grandi gruppi. Nel 2011 circa un quarto delle imprese con almeno 50 addetti controllava unita’ produttive all’estero, con percentuali piu’ basse nei servizi.
Permangono tuttavia due elementi di debolezza per la competitivita’ del “sistema Paese”:il primo, perche’ l’internazionalizzazione produttiva resta considerevolmente piu’ bassa di quella degli altri principali paesi europei, nonostante l’Italia sia la seconda realta’ manifatturiera del Continente; il secondo elemento di debolezza continua a essere uno stock di investimenti all’estero in rapporto al Pil che e’quasi la meta’ di quello tedesco e francese .
Se cio’ riflette le difficolta’ che hanno caratterizzato negli ultimi anni il sistema bancario e il credito alle imprese di minore dimensione e finanziariamente piu’ fragili, vi sono indubbiamente concause strutturali che influiscono sulla minor capitalizzazione.
Recenti ricerche basate su campioni di aziende manifatturiere interpellate da Bankitalia, evidenziano le diversita’ strutturali tra le nostre aziende multinazionali e quelle che producono esclusivamente per il mercato interno o che esportano ma senza produrre all’estero.
Le multinazionali hanno maggior dimensione, sono piu’ innovative, hanno una piu’ elevata produttivita’ anche in termini di valore aggiunto per addetto, rispetto ai puri esportatori.
Tra le motivazioni a investire all’estero, prevale la ricerca dei mercati piu’ dinamici, ed e’ qui che rileva il discorso sui mercati emergenti e il sostegno fornito dalle istituzioni pubbliche.
Circa gli effetti della crisi sui comportamenti delle aziende, le multinazionali hanno avuto migliori “performances” di quelle che esportano solamente, sia in termini di utili, che di fatturato, di occupazione e di produttivita’.
Si e’, di conseguenza, consolidata la propensione a spostarsi verso livelli piu’ evoluti di internazionalizzazione, con una migliore tenuta nel fatturato e nell’occupazione. Vi si e’ associato un maggior impiego di capitale e di lavoro specializzato, con accresciute quote di investimenti in ricerca e sviluppo, e produttivita’ piu’ elevate.
Un discorso a parte merita la presenza della imprese italiane nella globalizzazione dei mercati dei prodotti intermedi, le cosiddette Global Value Chains. Se oggi i prodotti sono il risultato di una catena globale del valore, frutto di intermediazioni che travalicano frontiere e continenti, allora si deve constatare quanto si sia trasformato -con l’offshoring, l’outsourcing, il robotsourcing- il modo di fare impresa.
Secondo l’OMC piu’ della meta’ del commercio mondiale di manufatti e tre quarti del commercio di servizi sono prodotti intermedi.Sono percio’ necessarie strategie innovative che attraggano le catene del valore nel territorio italiano.Perche’ nella competizione risultera’ vincente non il Paese che esporta di piu’,ma il sistema che immette nel prodotto la miglior combinazione di valore e di elementi immateriali.Le imprese fornitrici di beni intermedi sono parse maggiormente coinvolte dalla crisi.Secondo alcune ricerche,sarebbe proprio il nostro diverso posizionamento all’interno delle Global Value Chains a spiegare,in buona misura,il divario di crescita tra Italia e Germania in questi ultimi anni.
Possiamo tuttavia contare su alcuni punti di forza.
Anzitutto sul “capitalismo di territorio”:un mix di risorse concrete e immateriali,eccellenze produttive,patrimoni culturali,qualita’ e tipicita’.
Contiamo anche sui distretti industriali dove la produzione e’ organizzata su ampia scala geografica;pensiamo per esempio al cluster meccatronica e automotive tra Lombardia,Piemonte,Baviera e Baden Wuerttemberg.
Possiamo inoltre contare, nel campo delle grandi opere infrastrutturali nei paesi emergenti, sul miglioramento della nostra capacita’ ad aggiudicarci appalti finanziati dalla Banca Mondiale, a entrare in partnership con imprese locali ,superando criticita’ che continuano a esistere nei sette piu’ interessanti Paesi per grandi opere infrastrutturali: Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia.
B) OPPORTUNITA’ E CAUTELE NELL’OPERARE SUI MERCATI EMERGENTI.
Il trascorso decennio, inclusi gli anni seguiti al fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008,e’stato un periodo di affermazioni considerevoli per gli investimenti e l’esportazione italiana nelle economie emergenti.
Il proliferare di acronimi ha dato il polso di un fenomeno che ,come avviene da tempo, risponde si’ a strategie molto serie ,ma anche al diffondersi di aspettative dettate da mode e tendenze non sempre convincenti. All’acronimo BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) lanciato da un analista di Goldman Sachs si e’ aggiunto piu di recente quello CIVETS (Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia, Sud Africa) e il metaforico MIST (Messico, Indonesia, Sud Corea, Turchia).
Una vera corsa ad aggregare mercati che solo parzialmente rivelano omogeneita’macroeconomiche,di sviluppo,e di affidabilita’politica.
Nonostante i successi di molte nostre aziende,con dinamiche esportative ben al disopra delle due cifre di crescita in diversi Paesi BRICS,CIVETS e MIST,l’euforia diffusa sino al 2008 ha ceduto il passo a considerazioni piu’caute e realistiche.
C’e’stata,anzitutto,una contrazione della crescita complessiva nel “mondo emergente”,tornata nel 2013 al 4%.
In secondo luogo,l’annuncio da parte della Federal Reserve circa il progressivo ridimensionamento dell’immissione di liquidita’monetaria,ha contribuito al ridimensionamento di alcune monete,come quelle turca, indiana,russa,brasiliana e indonesiana (quest’ultima peraltro in netta ripresa da inizio anno),costringendo quelle Autorita’ monetarie a immediate manovre sui tassi e sui cambi.
In terzo luogo, sono emerse: fragilita’ interne (Turchia); tensioni sul piano internazionale (Russia); paralisi nelle riforme (India) ralllentamenti nel ciclo e problematicita’ nel sistema finanziario (Cina, Brasile);generalizzate difficolta’ nell’accesso ai finanziamenti internazionali nel momento in cui la marea monetaria innalzata dalla FED ritornava ad abbassarsi, provocando un deflusso soprattutto dai “cinque fragili” come li ha etichettati, esagerando, Morgan Stanley :Brasile ,India, Indonesia, Sud Africa, e Turchia.
Tutto questo significa che siamo dinanzi al rischio di una crisi generalizzata nei mercati emergenti simile a quella del 1997/98,quando i problemi, sostanzialmente isolati, in Thailandia si tramutarono in un disinvestimento massiccio dai mercati emergenti, nel collasso di alcune valute ,in recessione e insolvenza nel debito estero?
La domanda e’ allarmista e provocatoria. Parliamo di mercati che sono oggi assai meno vulnerabili di quindici anni fa, con governi piu’ consapevoli e stabili, anche se non mancano neanche oggi politici compiacenti, corruzione diffusa, indebitamenti d’impresa elevati, sistemi bancari opachi e sovraesposti.
Il Fondo Monetario si schiera dalla parte dei moderatamente ottimisti,notando come,diversamente dalla fine degli anni ’90,questi paesi dispongano di: cambi flessibili; riserve valutarie enormi ,complessivamente pari a circa 8 trilioni di dollari; deficit al disotto del 5%(solo due sui primi 25 sarebbero sopra);debito nettamente piu’contenuto che negli anni ’90 e ,in genere,in valuta locale.
Vero e’ che la posta in gioco della globalizzazione richiede un livello di attenzione, una capacita’ di analisi e di “Governance” estremamente elevati.
Secondo Morgan Stanley, le grandi aziende europee realizzano ben un terzo delle loro vendite nei mercati emergenti. Il rapporto tende a crescere in ragione della dimensione aziendale. Come ha osservato recentemente l’Economist, con la crisi dei “subprime”e dell’euro l’urgenza di trovare alternative nei paesi emergenti e’ stata irrefrenabile. Gli IDE in Cina nel 2010 sono raddoppiati rispetto al ’98.Le acquisizioni si sono generalizzate. In dieci anni si sono quintuplicate le acquisizioni nei paesi emergenti, mentre il prezzo che gli acquirenti occidentali sono stati disposti a pagare e’ balzato a piu’ di diciassette volte i profitti operativi, a fronte di un multiplo della meta’ dieci anni prima. Come conseguenza di tutto cio’ l’investimento “equity” delle imprese occidentali nei paesi emergenti e aumentato in poco piu’ di dieci anni è di almeno 3trilioni di dollari, e le acquisizioni di ulteriori 1,6 trilioni.
La dimensione e il grado di integrazione che caratterizza il rapporto tra economie post industriali e economie emergenti richiede una radicale rimessa in discussione degli strumenti previsionali del passato. Un po’ come sosteniamo in molti per quanto riguarda la Governance dell’Euro.
Come ha scritto Ruchir Sharma su Foreign Affairs, gli analisti hanno commesso “legioni di errori”, al momento del boom degli emergenti: li hanno valutati nel loro insieme, anziche’ individualmente; hanno creduto al credito vantato dai Governi nel motivare eccezionali ritmi di crescita, che in buona misura dipendevano anche da fattori esogeni; hanno esagerato l’impatto di singoli “drivers” (demografia, globalizzazione),anziche’ privilegiare quelli piu’ complessi; ma soprattutto si sono affidati a estrapolazioni mutuate da una crescita lineare, anziche’ ciclica ,per di piu’ relativamente breve, di 3/5 anni.
Ragionare su periodi medio brevi, ma con una visione ampia della complessita’,rappresenta il “must” nell’approccio ai mercati emergenti. La chiave della buona politica e dell’affidabilita’,risiede nell’equilibrio complessivo: una crescita che non sia troppo dipendente dall’indebitamento; una ricchezza non concentrata esclusivamente tra poche famiglie o settori produttivi, in particolare quelli delle risorse naturali piu’ esposti alla corruzione; una spesa sociale appropriata, percio’ ne’ troppo bassa, ne troppo alta, rispetto ai reddditi medi.
Queste ,in buona sostanza,le ricette che gli analisti piu’ accreditati propongono per i Paesi emergenti ai quali dovremmo guardare con maggior interesse.
C).IMPULSO AI NEGOZIATI “MACROREGIONALI”
La stagione della liberalizzazione globale degli scambi commerciali, degli investimenti e dei servizi sembra aver ceduto il passo ai negoziati di liberalizzazione regionale, nonostante qualche inatteso segno di vita dato dal “Doha round” globale e ai primi risultati ottenuti dal nuovo Direttore Generale brasiliano dell’OMC.
La crisi del 2008 ha infatti accentuato l’urgenza di politiche commerciali mirate alla crescita economica. Se tali politiche si pongono anzitutto l’obiettivo di aumentare l’interscambio tra i paesi coinvolti, vi e’ un altro aspetto ugualmente importante. Quello di far leva sulla liberalizzazione degli scambi per stabilire o rafforzare le regole in materia di protezione degli investimenti, della proprieta’ intellettuale e dell’innovazione, di tutela dell’ambiente, di sicurezza del lavoro e di lavoro minorile: in altre parole, i negoziati di liberalizzazione a livello regionale puntano als radicamento dello “Stato di diritto” nell’economia globale .
La crescente assertivita’ delle economie emergenti richiede un forte impegno per la convergenza di standard tra “vecchi” Paesi industrializzati e “nuovi attori” dell’economia globale. Si avverte da tempo la necessita’ di un piu’ equo “playing field”,un piu’ equo “terreno di gioco” nella competizione tra imprese e tra i diversi “Sistemi Paese”. La diplomazia delle regole e’ quindi componente essenziale del sostegno al sistema produttivo.
Sensibilita’per i diritti umani, le condizioni di lavoro e la sicurezza dei lavoratori, attenzione alla condizione femminile e dell’infanzia, contrasto alle pratiche corruttive costituiscono “comportamenti virtuosi” che molte imprese attuano nei mercati emergenti indipendentemente dall’entrata in vigore di accordi internazionali o di norme interne che ne statuiscano l’obbligarieta’.La Corporate Social Responsibility si e’ notevolmente diffusa. Iniziative nella formazione, educazione, assistenza, sviluppo sostenibile sono diventate sempre piu’ patrimonio dell’esperienza imprenditoriale italiana nel mondo. Prendersi cura della societa’ in cui si fa impresa ,contribuire alla corretta amministrazione della cosa pubblica, a creare una coscienza della legalita’,si dimostrano carte vincenti anche se si considerano questi comportamenti esclusivamente da un mero punto di vista economico e di redditivita’ dell’impresa. Robert Eccles, della Harvard Business School, ha confrontato, nel lungo periodo, due diversi campione di aziende: da un lato quelle ad “alta sostenibilita”,con strategie strutturate in senso “virtuoso; dall’altro quelle a “bassa sostenibilita’”, perche’ indifferenti a tali preoccupazioni nei territori in cui operano .Ebbene, Eccles ha potuto quantificare un ritorno economico nettamente superiore, tra il 25% e il 35%,per le aziende ad “alta sostenibilita’”,rispetto alle altre. Correttamente l’Unione Europea ha fatto propria questo modello di business, inserendolo quale elemento preferenziale negli appalti pubblici, oltre che come fattore di competitivita’.
Per giungere al rilancio degli scambi commerciali e degli investimenti ,da un lato, e per ottenere standard comuni che integrino veramente i mercati europei, americani, asiatici e latinoamericani stanno negoziando una serie nutrita di accordi di libero scambio, ampi nella loro “estensione” geografica e tematica, e tuttavia non a riferimento globale. I negoziati di maggior significato sono il TTIP (commercio, investimenti e partenariato) tra Ue e Usa; il TTP (commercio e partenariato) tra Usa e Paesi asiatici, esclusa la Cina, il FTA (libero scambio) tra Ue e Celac (America Latina e Caraibi), e quelli che Usa e Ue hanno recentemente concluso con Corea del Sud, Colombia e Peru’.
Per giungere a standard comuni dobbiamo promuovere alleanze con i Paesi con cui condividiamo valori e interessi. Anche e soprattutto per questo la Transatlantic Trade and Investment Partnershi tra Europa e Stati Uniti e’ cosi’ importante: non solo per integrare ulteriormente l’economia euroatlantica, quasi la meta’ del Pil mondiale, generando una crescita aggiuntiva stimata in almeno 100 miliardi di Euro annui;il TTIP e’ altrettanto importante per consolidare regole di comportamento e principi -in altre parole la Governance- dell’economia e della finanza globale.
In questo senso, la TTIP costituira’, se giungera’ al traguardo, un “polo gravitazionale” per l’ affermazione di regole condivise con le economie emergenti.
A tale obiettivo mirano piu’ direttamente un po’tutti gli altri negoziati dell’ Ue e degli Usa che ho ricordato.
Quelli in corso con la Cina,in particolare, possono avere riflessi profondi -come ha recentemente notato l’ex Presidente della Banca Mondiale, Zoellick-sullo stesso processo di riforme all’interno del Paese.
Trattati che prevedano parita’ condizioni agli investimenti esteri, trasparenza, lotta alla corruzione, con regole che impediscano discriminazioni, nazionalizzazioni o espropri arbitari, e liberalizzino i movimenti di capitale per un ampio spettro di investimenti produttivi, stimolerebbero le riforme interne in Cina. Infatti sarebbe irrealistico immaginare la sopravvivenza di pratiche discriminatorie tra imprese cinesi, in presenza di meccanismi che garantiscano invece parita’ di trattamento tra le imprese nazionali e quelle estere. E Zoellick stima che i benefici si avvertirebbero soprattutto per le PMI.
La “rete di negoziati” che si sta cercando di tessere tra Atlantico e Pacifico costituisce, per i motivi che ho cercato di delineare, una straordinaria opportunita’ da cogliere. Credo che sia essenziale il sostegno convinto e l’indirizzo di tutte le realta’ produttive del nostro Paese.
Negli ultimi cinque anni la globalizzazione ha proseguito la sua corsa,nonostante la crisi,e ha accelerato ulteriormente gli scambi. Le flotte portacontainers sono aunmentate del 50%Gli utenti di Internet sono passati da 1,5 a 3 miliardi.La popolazione delle citta’ e’ aumentata di altri 380 milioni. Soltanto nei mercati asiatici la “middle class”-corrispondente alla fascia di reddito che ha decisiva importanza per la domanda aggregata- comprende oggi 525 milioni di consumatori. Tra quindici anni questa stessa “middle class” sara’ quadruplicata ,con 2,7 miliardi di consumatori, sei volte di piu’ di quella che dovrebbe essere la “middle class” americana, sempre tra quindici anni.
Sono proiezioni affidabili ed estremamente eloquenti per l’impegno che dobbiamo riservare alla competitivita’ del nostro sistema produttivo nei mercati emergenti,e per l’impegno che dobbiamo riservare alla costruzione di una Governance globale equa e affidabile.
Grazie.