Tempio di Adriano a Roma, 07 Luglio 2017
David Abulafia, il celebre storico di Cambridge, intitola un suo recente, fondamentale lavoro, “Il Grande Mare, una storia umana del Mediterraneo” .”Il Grande Mare” e’ una narrativa scientifica e al tempo stesso avvincente; essa attraversa piu’ di tre millenni, descrive una realta’ da sempre “liquida” per migrazioni epocali, confronti tra popoli e religioni ,radicali mutamenti di condizioni economiche, epidemie e guerre, proclamazione di imperi e rivolgimenti sociali.
Una “realta’ liquida” anche nella formazione dei miti, nella maturazione del pensiero e della scienza, nell’evolversi del rapporto tra religione, societa’ e potere. Se Abulafia definisce il campo di ricerca attorno a quanto si collega direttamente alla geografia del Grande Mare, alle coste, ai porti, alle popolazioni costiere, la sua impostazione non puo’ prescindere dalla visione di Fernand Braudel e delle decine di studiosi degli “Annales”, alla Ecole Pratique des Hautes Etudes a Parigi.
La “Civilta’ Mediterranea” viene definita-per Braudel- dai rapporti sociali ,dai contatti, dagli scambi che arricchiscono e per molti versi travalicano la localizzazione territoriale di una lingua, un popolo, e una cultura nazionale. L’interpretazione data dai nostri contemporanei ai trend prevalenti nell’immenso patrimonio del Mediterraneo non e’ certo univoca, ne’ potrebbe esserlo proprio per la straordinaria portata di questa “legacy”.
Da un lato Braudel insisteva sui comuni caratteri, sugli elementi aggreganti nello sforzo di definire “un’identita’ Mediterranea”. Piu’ di recente, anche altri storici e giuristi hanno insistito sul “concetto unitario di mediterraneo”, occultato nei decenni del contrasto Est-Ovest, ma non certo soppresso e meritevole quindi di essere riscoperto.
E’ interessante notare come tale senso di unita’ della “civilta’ mediterranea” non emerga soltanto tra gli intellettuali europei, ma anche tra quelli arabi. Durante la visita del Capo dello Stato in Giordania, venimmo tutti colpiti dal riferimento di quel Primo Ministro, importante giurista, Awn Khasawneh ai punti di contatto tra Diritto Romano e Sharia, peraltro rilevati anche in ricerche del grande internazionalista italiano Roberto Ago. E ancora alla comparazione tra diritto romano e musulmano sono dedicate ricerche importanti di altri studiosi arabi, come la tunisina Ladjili-Mouchette, mentre continua a influire fortemente l'”esperienza mediterranea” di Paul Valery.
Nel suo “la liberte’ de l’esprit” del 1939,appena prima dell’immane disastro creato dal nazifascismo, Valery scriveva: “Combien de choses se sont developpees sur le bords de la Mediterranee, par contagion ou par rayonnement…ce tresor auqel notre culture doit presque tout, au moins dans ses origines…la Mediterranee a ete une veritable machine a fabriquer de la civilisation”. Molti prigionieri di guerra francesi, italiani, spagnoli, tedeschi nei campi visitati da Braudel l’avevano convinto di quanta speranza speranza legata a quella identita’.
Abulafia mette tuttavia l’accento anche su un altro percorso, quello del valore delle diversita’ nella civilta’ mediterranea; delle continue influenze etniche, linguistiche, religiose e politiche, che attraversano il Grande Mare e che vi trovano, in diversa misura, una sintesi ma si collegano anche a realta’ esterne a tale delimitazione territoriale.
E’ la storia della sicurezza attraverso l’imperium romano; delle competizioni tra le citta’ costiere e i nascenti Stati-nazione in Europa; della diffusione del dominio musulmano; del confronto a fasi alterne tra commercio, negoziato e scontro armato tra Cristianita’ – Venezia, in particolare- e Islam; e’ la storia dell’espansione coloniale; dell’apertura di Suez; del globalizzarsi di sfide proprie da secoli al Mediterraneo -pensiamo al rapporto fra le tre religioni monoteiste e alle culture che a esse si collegano- e all’avvio di un’era della geopolitica nella quale la “civilta’ mediterranea” conta assai piu’ per i valori che essa puo’ mettere in campo, che non alla forza degli eserciti o delle fazioni fondamentaliste.
Credo non si possa dissentire da Abulafia quando scrive: “L’unita’ della storia mediterranea consiste, paradossalmente, nella sua vorticosa mutevolezza, nelle diaspore di mercanti e di esiliati.. la loro presenza puo’avere un effetto trasformativo sulle differenti societa’ introducendo qualcosa della cultura propria ai confini esterni di un continente all’interno di un altro. Il Mediterraneo e’ cosi’ diventato probabilmente il luogo di piu’ vigorosa interazione tra diverse societa’ sulla faccia del pianeta, ed ha avuto un ruolo nella storia della civilta’ umana di gran lunga superiore a quella di qualsiasi altro grande mare.”
La cultura del dialogo, dell’interazione educativa e intellettuale, il confronto e il pluralismo politico, cosi’ radicati nel pensiero che ho sintetizzato sulla “identita’ mediterranea”, trovano ampio spazio nell’acquis dell’UE e di tutti i paesi che sono legati all’Europa da intese di partenariato .
La Dichiarazione di Barcellona del Novembre 1995,atto fondatore del partenariato globale tra l’UE e dodici paesi del Sud del Mediterraneo, “rappresenta una nuova fase nelle loro relazioni affrontando per la prima volta gli aspetti economici, sociali, umani, culturali e le questioni di sicurezza comune.. riconosce che le tradizioni di cultura e di civilta’ in tutta la regione del Mediterraneo, il dialogo e gli scambi a livello umano, scientifico e tecnologico sono un fattore essenziale per avvicinare i popoli mediterranei…”, impegna al primo punto a “rispettare i diritti umani e le liberta’ fondamentali… rispettare i principi dello Stato di diritto e della democrazia… la sovranita’ degli Stati… l’uguaglianza e l’autodeterminazione die popoli… la composizione pacifica delle controversie… combattere il terrorismo… promuovere la sicurezza regionale, eliminare le armi di distruzione di massa”.
A distanza di quattordici anni, può certo essere frustrante constatare la deviazione macroscopica verificatasi rispetto a tali principi, i comportamenti di segno contrario di alcuni governi firmatari, e la pesante interferenza negativa di alcune potenze regionali e globali, essenzialmente Iran e Russia.
L’identita’ europea si e’ formata attorno a quel nucleo di culture, di principi, di rapporti che costituiscono la civilta’ mediterranea. Classicita’, Cristianesimo, Ebraismo, Umanesimo Rinascimento, sino all’Illuminismo e all’idea di nazione, hanno avuto origine o per lo meno impulso dal pensiero e dalla storia del dei popoli mediterranei. Il mondo musulmano ne e’ stato a tratti parte rilevante. Continua ad esserlo sempre piu’ oggi, con i quasi 20 milioni di cittadini europei che vi appartengono, e con la crescente complessita’ delle vicende che caratterizzano il mediterraneo meridionale e orientale.
E’ grazie all’ “ancoraggio identitario” che gli anni trascorsi dalla Dichiarazione di Barcellona sono stati preziosi per i paesi che l’hanno sottoscritta. Infatti l’obiettivo del partenariato e il metodo del dialogo continuano a essere l’asse portante della politica estera e di sicurezza dell’Ue e dell’Italia nel Mediterraneo.
Dal ’95 sono tuttavia cambiate componenti fondamentali nello scenario del Mediterraneo configuratosi a Barcellona: UE + i 12 altri Paesi rivieraschi. La cornice e’ diventata assai piu’ ampia.
Non soltanto per gli allargamenti dell’Ue nel ’95 e poi nel 2004,2007 e 2013 con la crescita da 12 a 28 Stati membri. Solo sette dei ventotto sono “mediterranei”, considerando come tali anche Slovenia e Croazia. Cio’ ha comportato un netto spostamento del baricentro europeo in direzione continentale anziche’ mediterranea.
Il radicale mutamento ha riguardato anche tutti i paesi delle “Primavere Arabe”, coinvolgendo l’Iran, l’Iraq, la Turchia, i paesi del Golfo. In questo senso, si dovrebbe oggi parlare di “Grande Mediterraneo”: la regione che da Gibilterra alla Mesopotamia e al Golfo deve essere la principale realta’ di riferimento per la politica estera e di sicurezza dell’Europa e dell’Italia.
Nessun altro spazio geopolitico comprende quanto il Grande Mediterraneo risorse, opportunita’, e dinamiche influenti cosi’ direttamente sul futuro dell’Europa.
Tra queste, credo vi sia anzitutto l’emergere incontrastato dell’Iran come “superpotenza regionale”. Per l’Italia, che ha una storia estremamente importante di rapporti con questo Paese, di antica e affascinante cultura, di straordinarie potenzialita’ economiche, un’ accresciuta responsabilita’ iraniana quale fattore di stabilita’ e di sviluppo regionale sarebbe certamente auspicabile. E’ quindi con disappunto che rileviamo come il “nuovo corso” del presidente Rouhani non stia dando i frutti sperati. E’vero che gli sciti andati al potere in Iraq dopo l’eliminazione di Saddam Hussein si erano subito comportati da “proxies” di Teheran; che contemporaneamente veniva scoperto in Iran un programma nucleare clandestino. Ma questo era solo l’inizio. Per tutto il decennio l’influenza iraniana sull’intera regione si e’ ulteriormente consolidata:
– grazie ad Al Maliki l’Iran ha governato per interposta persona l’Iraq,con i risultati che vediamo ;
– ha fomentato la rivolta Houti in Yemen, la ribellione in Bahrein, alimentato il contrabbando di armi e i finanziamenti ad Hamas a Gaza;
– ha incoraggiato Hezbollah, a colpire Israele dal Libano,e a intervenire in Siria;
– ha inviato in Siria un corpo di spedizione di pasdaran e di milizie scite irachene . In Siria e in Iraq la repressione antisunnita, sin da prima del delinearsi dello Stato islamico, e’ soprattutto opera di queste milizie.
– Siria, Iraq, Yemen, Libano, sono Paesi ormai “irrinunciabili” per l’Iran, come dichiarano pubblicamente i vertici politici e militari a Teheran.
All’interno del paese i condizionamenti delle componenti radicali sulla Presidenza Rouhani sono divenute appariscenti. Cio’ e’ accaduto con il negoziato nucleare, per il quale non si e’ fatto alcun vero sforzo per un compromesso. Nelle nomine di governo per ben quattro volte e’ risultata impossibile la nomina di un candidato di Rouhani all’incarico- cruciale dopo l'”onda verde” del 2009- di ministro dell’Educazione. Sono sempre piu’ plateali le violazioni dei diritti umani, in particolare contro le donne; il numero senza precedenti delle condanne a morte; la persecuzione fisica e psicologica a Camp Liberty dei Mujaheddin iraniani nonostante essi abbiano lo status di persone protette dall’Onu.
La strategia Iraniana trova nelle crisi Siriana e Irachena occasioni irripetibili, paragonabili solo a quella del 2003 in Iraq: lo Stato Islamico ha convinto la coalizione occidentale -araba che il “male necessario” e’ quello di appoggiare gli sciiti contro i sunniti, sia pure dando per scontato che Assad ne uscira’ rafforzato e che la preminenza scita a Baghdad si consolidera’ ulteriormente.
All’intesa tra Erbil e Baghdad sulla ripartizione delle risorse petrolifere, di bilancio e sulla collaborazione militare deve seguire il recupero effettivo delle componenti sunnite, anziche’ tradursi semplicemente in una saldatura tra curdi e sciti.
Il problema, che riguarda direttamente l’Europa e l’Italia, e’ ben lontano dal poter essere risolto con la distruzione dello Stato Islamico.
Non ci possiamo aspettare che la riedizione del “metodo Maliki /Assad” in Iraq e in Siria, all’insegna del revanscismo scita e dell’esclusione dei sunniti dal governo e dall’economia del paese, senza alcuna garanzia per la loro sicurezza e per il loro futuro, non abbia conseguenze gravi in tutta l’area del “Grande Mediterraneo”. Vediamo avanguardie della radicalizzazione sunnita nel Sinai egiziano; a Derna in Libia; nei gruppi salafiti che hanno ucciso l’anno scorso in Tunisia due leaders dell’opposizione laica, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi; nelle operazioni di Boko Aram in Nigeria, dei gruppi terroristici dell’Azawad in Mali, di quelli operanti tra Chad,Niger, Libia e Algeria; nel susseguirsi di stragi in Kenia rivendicate dagli Shebab.
E’ certamente sterile dibattere cause, errori, e superficialita’ nella gestione delle vicende irachene e siriane di quest’ultimo decennio. Molto e ‘dipeso dalla pericolosa propensione europea, e italiana, a mettere la sicurezza internazionale e la prevenzione delle crisi a livelli molto bassi delle priorita’ politiche.
Persino l’Amministrazione Obama, che aveva fatto del disimpegno militare nelle aree di crisi la sua vera bandiera, si trova obbligata a rimettere “booths on the ground” in Iraq, e probabilmente anche in Siria. E si trova costretta a farlo in condizioni ben piu’ difficili di quelle che esistevano nel 2011,quando aveva deciso di ritirare le forze Armate dall’Iraq. Al punto di dover accettare adesso le garanzie sullo status delle forze che aveva formalmente respinto tre anni fa perche’ insufficienti.
L’abbandono da parte dell’Occidente dell’insorgenza anti Assad, che nel 2011 era ancora relativamente incontaminata da Al Qaeda, si sta traducendo nella rileggitimazione di Assad: una ricetta per rendere cronica la destabilizzazione di un Paese nel quale meta’ della popolazione e’ ormai sfollata o rifugiata all’estero.
L’uscita delle forze americane dall’Iraq nel 2011 ha poggiato su previsioni estremamente ottimistiche -e dobbiamo assolutamente evitare la ripetizione di questa vicenda in Afghanistan- circa l'”empowerment” dell’esercito iracheno. Questa “falla” ha grandemente contribuito all’affermazione dello Stato Islamico.
Recentemente e’ stata data notizia di un rapporto commissionato nel 2010 dal Pentagono, che prevedeva esattamente quanto e’ poi accaduto puntualmente quando i marines hanno lasciato l’Iraq. Le capacita’ operative, la formazione, il reclutamento, l’intelligence, il comando e controlIo delle Forze irachene era dato gia’ nel 2010 dagli esperti del Pentagono come fallimentare, assolutamente non in grado di sostituire le Forze statunitensi. I comandi iracheni venivano etichettati quali centri di corruzione e di furti .Ma tutto cio’ contrastava con altre priorita’, ed era meglio non parlarne troppo. Quattro anni dopo si e’ dovuto constatare che cinquantamila soldati, numero equivalente a circa la meta’ dell’intero Esercito italiano, regolarmente pagati sul bilancio dello stato iracheno, non esistono.
Se la stabilita’ del Grande Mediterraneo rappresenta un interesse vitale per l’Ue e per l’Italia, sono ineludibili alcune considerazioni.
1. La prima e’ sui principi di fondo della politica estera e di sicurezza. L’Europa non si puo’ permettere di “aspettare l’America”. In Siria l’inazione nel corso del 2012/2013 non e’ certo stata determinata solo dall’Europa. In Libia abbiamo sempre saputo che le responsabilita’ europee non avrebbero ottenuto supplenza alcuna da oltre Oceano. In Mali e nella Repubblica Centrafricana i francesi l’hanno capito e ne hanno rapidamente tratto le loro conclusioni, intervenendo tempestivamente in via nazionale e promuovendo parallelamente un’ampia missione di pace africana e delle Nazioni Unite.
2.La seconda considerazione e’ collegata all’auspicio ribadito nei giorni scorsi in una sua intervista da Jurgen Habermas , affinche’ l’Europa metta in campo la sua potenza a livello mondiale per “civilizzare il capitalismo e instaurare i diritti umani”.
Civilizzare il capitalismo. La pressoche’ totale finanziarizzazione dell’economia, la crescente polarizzazione della ricchezza in capo a gruppi sempre piu’ ristretti ,autoreferenziali e “unaccountable”,minano alla base l’indispensabile sostegno delle societa’ europee ad un ruolo globale dell’Europa che sia realmente esercitato nell’interesse collettivo di cittadini europei.
La grande maggioranza degli europei vede ora questo “ruolo globale” per quello che innegabilmente é: esercitato nell’interesse pressoché esclusivo delle solite banche, delle multinazionali immuni dalla tassazione lussemburghese, dei potentati politico-affaristici che influiscono direttamente, in diversi casi, come in Italia, sulle scelte della politica di cooperazione allo sviluppo (la nuova Legge sulla Cooperazione viene gia’ definita la “Bengodi della licitazione privata”) e perfino sulle scelte di politica estera e di sicurezza, vedasi l’incredibile vicenda Maro’.
In questo senso il monito di Jurgen Habermas all’Europa – “Civilizzare il capitalismo e instaurare i Diritti Umani” – riguarda in modo speciale, per l’Europa e per l’Italia, l’azione nel Grande Mediterraneo.
3.La mia terza osservazione riguarda priorita’, contenuti, e proposte dell’azione italiana a Bruxelles e nelle capitali mediterranee, per la regione che, vorrei sottolinearlo ancora una volta, deve costituire la priorità massima per la politica estera del nostro Paese. Distinguiamo tra lungo e breve termine. Su entrambi dobbiamo avere obiettivi chiari e raggiungibili.
Riconoscendo l’inadeguatezza delle prime risposte europee alle “Primavere Arabe” del 2011,dovremmo aver tutti chiaro che esse hanno segnato una tappa di un lungo e incerto percorso che puo’ essere rovesciato in ogni momento, verso pluralismo, stato di diritto, diritti umani. Ma quanto ci e’ voluto, si interrogano alcuni autorevoli studiosi arabi (Marwan Muasher, ad es.), perche’ le rivoluzioni europee del 1848, o i movimenti anticomunisti est europei degli anni ’70,potessero finalmente sprigionare la loro forza trasformatrice? L’obiettivo pluralista e democratico verso l’affermazione dello Stato di Diritto deve quindi continuare a guidare la nostra azione :nella consapevolezza che si tratta di uno sforzo di lungo periodo. Esso deve tradursi in politiche di “partenariato” ben più decise, con ben maggiori risorse e impulso politico di quelle che sono state finanziate dall’Unione per il periodo 2014-2020.
Se gli equilibri tra i 28 Stati Membri continueranno ad impedire una correzione di rotta nella politica mediterranea, rispetto a quella del Partenariato Orientale, l’Italia deve avviare con decisione delle “cooperazioni rafforzate”.
Con la Francia abbiamo gia’, da circa tre anni, una concertazione stretta tra Quai d’Orsay e Farnesina, sul post-Primavere Arabe. Lo stesso dovremmo fare con Spagna, Malta, Grecia, Cipro, per creare un “nucleo” di paesi attivi a Bruxelles attorno a una precisa strategia; associando per certe questioni-come il lancio di una “missione europea di stabilizzazione in Libia”- Gran Bretagna, Olanda, Portogallo e altri partners eventualmente interessati.
I programmi europei devono riguardare: a) oltre a inclusivita’ e pluralismo politico, i bisogni sociali, i servizi essenziali, lo sviluppo e l’occupazione; b) l’educazione, con attenzione alla tolleranza e al dialogo; c) la generazione di risorse finanziarie in raccordo con le organizzazioni multilaterali di cui l’UE e’ parte; d)la focalizzazione sui programmi, anzichè sulle persone di riferimento; e) l’incentivazione al consolidamento delle forze politiche, spesso disperse, interessate alla democrazia e allo Stato di diritto.
4. Quanto precede dovrebbe segnare obiettivi di lungo termine. Al tempo stesso le iniziative immediate e urgenti devono andare nella stessa direzione. Nelle crisi piu gravi, in Siria e in Iraq, la strategia sbagliata e’ quella di una apodittica militarizzazione del conflitto che non poggi su solide, condivise, credibiIi basi politiche di inclusivita’, pluralismo, transizione a Damasco e a Baghdad. E’ su questi aspetti che si devono ottenere azioni coerenti, immediate, da Assad, Al-Abeidi, Rouhani, prima di addentrarci ancor piu’ nel conflitto sunnita-scita, che deborda ormai ovunque anche sulle nostre porte di casa.
5. ll mio quinto punto riguarda piu’ in particolare la Libia e la crisi profonda attraversata dal Paese sul piano della sicurezza e della stabilizzazione politica.
a) Sicurezza. Nel Paese si è oramai affermato un sistema ibrido di sicurezza. Esso ha avuto le sue origini durante la rivoluzione del 2011 ed ha continuato a caratterizzarsi e a frammentarsi attraverso una disgregazione delle strutture centralizzate e il proliferare di milizie e gruppi legati a interessi locali e a fazioni politiche. Caduto il regime di Gheddafi le forze lealiste sono sconfitte, mentre a quel che resta dell’esercito regolare, in parte disintegratosi alla scomparsa del Rais si affiancano organismi come il Comitato Permanente di Sicurezza, che il dittatore aveva creato al di fuori delle istituzioni statali per poter contare su un nucleo più fedele di militari.
Sin dal 2011 equivoci e commistioni emergono anche con l’appoggio da parte delle forze armate libiche ai rivoluzionari della Cirenaica; per questo l’esercito non assume una connotazione nemica pur essendo sempre guardato con sospetto. In Tripolitania e nel Fezzan, dopo la scomparsa di Gheddafi, diverse unità regolari si uniscono ai Consigli Militari Rivoluzionari che si collegano ad una miriade di milizie sparse su tutto il territorio. Solo a Tripoli si costituiscono ben 17 Consigli Militari e un numero indefinito di milizie di quartiere, mentre gruppi armati provenienti dall’Est, oltre che da Zintan e Misurata si insediano a Tripoli.
La costituzione dello Supreme Security Committee (SSC) mira a calare dall’alto una struttura di coordinamento delle milizie ma in realtà si traduce in ulteriore proliferazione delle medesime perché offre stipendi e collegamento con le Forze Politiche e le Istituzioni Statali transitorie. Nel corso del 2012-2013 il SSC sfugge all’effettivo controllo dei Ministri degli Esteri che si succedono. Mentre acquista maggior peso la figura di Omar Kadrawi, Vice Ministro dell’Interno sino a settembre 2013 e vicino agli Islamisti e ai rivoluzionari.
Tra gli islamisti salafiti di orientamento saudita e quindi meno influenzati dalle correnti Jihadiste emergono alcuni comandanti militari della Capitale che ritengono di dover avere crescente influenza politica, nell’allontanamento di esponenti del vecchio regime e con iniziative di pressione sul Parlamento e sulla Magistratura. Mentre tramonta a Tripoli il ruolo dell’SSC, con la difficoltà rappresentata da un numero enorme di appartenenti (più di 160 mila uomini), a Bengasi esso viene sciolto rapidamente per le diverse caratteristiche che la rivoluzione ha preso in Cirenaica. Nel frattempo si costituisce a Tripoli la Guardia Nazionale, guidata da un ex Jihadista, e le “Libya Shield Forces” (LSF) anche queste originate ad Ovest per poi espandersi a livello nazionale, solo formalmente sotto il comando dello Stato Maggione. Le LSF restano però staccate dalle forze regolari, ottengono finanziamenti autonomi e si impegnano anch’esse in un’azione politica contro la presenza di esponenti del vecchio regime.
Anche le LSF subiscono tuttavia un processo di conflitti interni e di frammentazione che troverà il suo culmine nella biforcazione istituzionale dell’agosto scorso. LSF diventa così un protagonista della polarizzazione crescente del quadro politico, che a sua volta incoraggia o influisce su diverse operazioni militari come l’offensiva contro Bani Walid, il contrasto tra le milizie di Zintan e la coalizione di LSF, la rivalità con Misurata.
E’ molto importante considerare che le correnti islamiste, di orientamento sia Salafita che Jihadista, sono presenti in entrambi gli schieramenti e spesso in contrasto con le componenti riconducibili alla fratellanza Mussulmana.
Alcuni protagonisti di LSF creano nell’aprile 2013 la Libyan Revolutionaries’ Operations Room (LROR) che si qualifica sin dall’inizio per portare avanti la legge sull’isolamento politico, in un clima di intimidazione, e con l’occupazione di tutti i Ministeri a Tripoli. A tale eventi partecipano un po’ tutte le milizie rivoluzionarie, facenti capo a LROR, a LSF e SSC. Dopo le dimissioni di Mgarief, da Presidente del Congresso, l’elezione di Nuri Abusahmin, vicino agli islamisti e ai rivoluzionari c’è un ulteriore crescita di livello nelle tensioni a Tripoli, e Abusahmin assume anche il titolo di Comandante delle Forze Armate.
Il 2013 prosegue quindi con una serie di gravissimi incidenti, in giugno a Bengasi, a Tripoli, con l’uscita di Zintan dalla coalizione, la nascita della National Mobil Force, con il rapimento del Primo Ministro Zidan, la strage di Gargour e la conseguente dissoluzione di LSF con la revoca dei poteri militari di cui era stato in vista il Presidente Abusahmin.
I rivoluzionari di Misurata lasciano Tripoli consentendo a Zintan di ritornare. Seguono ad inizio del 2014 altre vicende che frammentano ancor più il quadro con la LROR abbandonata oramai dal moderati e la dipendenza del Governo da forze costitute da ex rivoluzionari, per stabilizzare Seba la Sirte.
A Bengasi la fine di LSF corrisponde alla ricostituzione delle milizie che l’avevano inizialmente creata. Nel Maggio 2014 la nascita di “Operazione Dignità” facente capo al Generale Haftar si inserisce in una radicalizzazione degli scontri a Bengasi e alla decisione di una maggioranza delle milizie islamiste di allearsi ad Ansar Al – Sharia.
L’avvio il 13 luglio di “Alba”, riunisce molti aderenti a LROR e a LSF e risponde alla ripresa di influenza che si era verificata nei mesi precedenti da parte delle milizie di Zintan. Al tempo stesso, ed è questo un altro aspetto politicamente rilevante, l’Operazione Alba mira a reagire alla sconfitta molto pesante subita nelle elezioni parlamentari di giugno dalla componente rivoluzionaria e islamista.
b) Situazione politica. Il Processo di frammentazione della sicurezza e i tentativi di ricompattamento nel fronte rivoluzionario islamista da un lato e in quello facente capo ad Operazione Dignità e al Generale Haftar dall’altro, si traduce in un quadro politico altrettanto frammentato. Esso tende però da diversi mesi a questa parte a consolidarsi in vera e propria biforcazione istituzionale. Si creano praticamente due Parlamenti e due Esecutivi, viene presentato ricorso alla Corte Suprema sulla illegittimità del trasferimento a Trobruk del Parlamento eletto nel giugno 2014. E il 9 novembre, con una decisione davvero dirompente la Corte Suprema libica non soltanto accoglie il ricorso presentato dagli islamisti ma proclama l’illegittimità dell’elezione del Parlamento. Il che lascia il Paese in una situazione di vuoto istituzionale e di pericolosissima spaccatura sul terreno tra Est e Ovest.
c) Gli sforzi in atto e il ruolo dell’Italia. Una stabilizzazione del contesto libico dipende da una sostenuta e forte azione internazionale per riannodare con la massima urgenza il dialogo politico da un lato e per assicurare alle soluzioni che potranno essere adottate la necessaria capacità di “enforcement”. Sono innumerevoli le occasioni multilaterali nelle quali si è discussa, in coincidenza con il rapido deteriorarsi della situazione libica, la strategia complessiva per il Paese. Non sono però sino ad oggi state messe in campo risorse assolutamente adeguate, né sul piano della azione diplomatica né su quello della sicurezza.
La missione europea per l’assistenza alla sicurezza dei confini è durata un anno senza produrre praticamente alcun risultato. Molti progetti bilaterali e multilaterali, di cui anche l’Italia è stata leader nel 2012/2013, sono stati rapidamente superati dall’evolvere della situazione.
L’attività svolta dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, è positiva ma ancora non sufficientemente determinata e costante.
Il nostro Paese ha non soltanto un interesse diretto – energia – immigrazione – potenzialità di mercato e presenza delle nostre imprese – alla stabilità del quadro libico. L’Italia ha anche avuto negli ultimi tre anni ripetute “investiture” da parte dei nostri maggiori alleati atlantici, in particolare gli Stati Uniti, per esercitare una sua vera leadership e per imprimere una svolta decisa al contributo che la Comunità internazionale deve offrire alla Libia.
L’azione italiana non è parsa sin ora sufficiente ad imprimere quel cambio di velocità nelle iniziative europee e in quelle dell’ONU.
Io penso che la Libia, anche in considerazione degli effetti devastanti sul quadro regionale che ha oramai il radicamento delle componenti islamiste più estreme, come quello dello Stato Islamico a Derna, e per il propagarsi di altre crisi che vi si collegano come quelle nella Repubblica Centro Africana, in Mali, in Ciad, debba essere al centro di una “cooperazione rafforzata”, guidata da Italia e Francia, insieme a Gran Bretagna, Spagna, Grecia, Cipro e Malta.
Si tratta di lanciare una grande missione europea, che abbia come mandato il sostegno al dialogo politico e il contributo alla sicurezza nel Paese, tenendo presenti le esperienze che si stanno sviluppando ad esempio nel Sahel. Colpisce vedere come per crisi probabilmente di minore dimensione e impatto di quella libica, il Mali e la Repubblica Centro Africana, siano state messe in campo grandi operazioni di pace sostenute da Paesi europei dall’UE e dall’ONU, dell’ordine di diverse migliaia di uomini, mentre in Libia siamo riusciti soltanto ad inviare una missione europea con 120 funzionari, con un mandato peraltro limitato ad essere più analisti che operativi.
In tema di azione politica, credo sia da tener ben presente lo schema illustrato recentemente da Mustafa Abushagur per una “iniziativa nazionale per salvare la Libia”. Lo schema mira a recuperare al processo politico entrambe le principali componenti politiche del Paese. Sia a Tripoli che a Tobruk starebbe emergendo la consapevolezza anche tra i membri del Congresso Nazionale rientrati nella Capitale che sia un errore far rivivere il Congresso Nazionale, sdoppiandolo in due componenti.
Vi sono diverse opzioni per ridar vita ad una Assemblea Parlamentare Nazionale che potrebbe trovar forma in un “Consiglio Legislativo” il quale potrebbe istituire a sua volta una Commissione Consultiva tra i leader rivoluzionari designati dai Consigli locali. Tale percorso consentirebbe un certo potere politico, ma non il diretto controllo da parte di una sola fazione sulla ricomposizione del Paese.
Il tema dell’architettura istituzionale, in condizioni di così profonda crisi, richiederà una presenza molto attiva dei principali partners della Libia, e una previa definizione di obiettivi non solo tra i Paesi confinanti, ma anche con quelli del Golfo.