Società, politica, religione, diritti umani, diritti delle donne
Torino, 23 Marzo 2016
Terrorismo, instabilità nel Mediterraneo e in Medio Oriente, migrazioni e rapporti con il mondo musulmano costituiscono in questo momento, e continueranno a esserlo a lungo, le principali sfide per la politica estera e di sicurezza del nostro Paese e dell’Occidente.
Tra queste, vi è soprattutto l’emergere dell’Iran come “superpotenza regionale”. L’Italia ha una storia importante con questo Paese, fatta di rapporti culturali ed economici. C’è un’attesa vivissima per un’evoluzione riformatrice, moderata, pluralista, che esprima un nuovo corso di Teheran consapevole di quanto sia necessaria un’accresciuta responsabilità iraniana per la stabilità e lo sviluppo regionale. Negli ultimi due mesi, il clima diffusosi attorno alle visite europee di Rouhani, all’accordo nucleare, alla miriade di dichiarazioni di fiducioso ottimismo dei Leaders occidentali, si è tradotto in migliaia di visite, contatti, missioni di aziende italiane, europee e iraniane. È essenziale per la nostra sicurezza e per la solidità delle imprese italiane che guardano con tanta fiducia al mercato iraniano che le attese, condivise da molti ambienti economici europei, siano fondate. Che non siano un mero “wishful thinking”.
L’Accordo nucleare entrato in vigore nelle scorse settimane offre garanzie, o per lo meno rende più concrete e realistiche le nostre aspettative in tale direzione? Favorita dall’esigenza di Washington di dimostrare la lungimiranza degli sforzi effettuati dal Presidente Obama sin dall’inizio del suo primo mandato per fare dell’Iran un partner responsabile, oltre che nella rinuncia all’atomica, anche nella gestione delle crisi regionali, si è subito diffusa sulle elezioni iraniane una narrativa entusiastica che enfatizza:
* la prospettiva dell’immediata apertura di un grande mercato, lo scongelamento di 150 miliardi di dollari che l’Iran potrà rapidamente spendere in beni e servizi forniti da imprese occidentali. Inascoltate restano le preoccupazioni di quanti avvertono che quell’enorme disponibilità andrà a finanziare, in primis, Hezbollah, Hamas, milizie e fazioni scite in Libano, Siria, Iraq, Yemen, nei Paesi a maggioranza sunnita del Golfo e altrove.
* la fiducia che l’entrata in scena da protagonista dell’Iran – con la solidissima alleanza della Russia- risolva definitivamente la tragedia siriana. In realtà la sta risolvendo attraverso una pulizia etnica che fa impallidire perfino i precedenti balcanici degli anni ’90, riversando sull’Europa milioni di rifugiati;
* il convincimento che l’Iran intenda davvero eliminare lo Stato islamico in Siria e in Iraq e la minaccia terroristica nella regione, anziché ridare vita a un regime criminale, quello di Assad, che ha fomentato proprio la nascita dello Stato Islamico con la liberazione dalle proprie carceri di un migliaio di Qaedisti a fine 2011 e in particolare dell’ispiratore della “euro-jihad, Abu Mussab Al Suri;
* il sogno che l’Iran sia partner dell’Occidente in Iraq, oltre che in Siria, e sia interessato ad attuare la Costituzione irachena del 2005 con partecipazione effettiva della componente sunnita alle istituzioni politiche e di sicurezza del paese;
* la fiducia riposta nelle buone intenzioni di Teheran nel chiudere il dossier nucleare, i punti lasciati in sospeso nel Rapporto Aiea dello scorso dicembre, “sanati” frettolosamente per dare via libera all’accordo nucleare;
Molti “ottimisti” sulla realtà iraniana, ritengono che le recenti elezioni al Parlamento avrebbero segnato, insieme all’accordo nucleare, una svolta di proporzioni storiche: l’affermazione dei moderati sui conservatori e sugli “hard-liners” nella teocrazia iraniana; un’evoluzione liberale, riformista, aperta al mondo esterno del sistema politico iraniano ; un “ritorno” nella Comunità Internazionale di un Paese che era stato isolato dalle barriere sanzionatorie e dall’esperienza fallimentare di un’economia governata dagli integralisti, e dagli apparati di sicurezza, nella quale l’80% dipende dalla Guardia Rivoluzionaria Islamica e dai Vertici del regime iraniano.
Per la verità la svolta è molto più apparente che reale. Essa è avvenuta dopo l’eliminazione della quasi totalità dei veri riformisti dalle liste elettorali, ed una “riqualificazione ” di “ultraconservatori”, in “candidati riformisti”. Molti “ultraconservatori” sono stati inseriti così nella “Lista della Speranza” che era stata invece presentata come lista di “moderati”.
Tutto ciò ha suggerito maggior cautela anche ai commentatori che hanno visto nell’accordo nucleare e nelle elezioni una svolta storica del regime iraniano. L’Iran, come questi stessi commentatori hanno scritto, è ben lontano dall’essere una democrazia. Molti moderati in Iran sarebbero considerati integralisti –“hard liners”- altrove. Gli integralisti hanno uno stretto controllo sulle forze di sicurezza, l’apparato giudiziario, la maggior parte dell’economia, e continueranno a esercitare tale controllo per il futuro prevedibile. E nonostante l’accordo nucleare, il ruolo destabilizzante dell’Iran in Medio Oriente, i suoi legami con la Russia, l’ostilità contro Israele rendono difficile per gli Stati Uniti e i suoi alleati Occidentali avere relazioni normali con Teheran.
Il terreno sul quale si manifesta con evidenza l’ossificazione totalitaria del regime, e in ultima analisi la pericolosità interna ed esterna del dogmatismo che caratterizza la Leadership iraniana , è quello dei diritti umani: in particolare contro le donne; il numero senza precedenti delle condanne a morte; la persecuzione a Camp Liberty dei Mujaheddin iraniani nonostante essi abbiano lo status di persone protette dall’Onu.
Non vi è da illudersi sulla situazione dei Diritti Umani in Iran. Repressione di ogni vera forma di opposizione e di pluralismo politico, discriminazione etnica e religiosa sono rimasti inalterati nei due anni e mezzo di presidenza Rouhani. Con almeno 2300 esecuzioni capitali, Teheran vanta un record se si considera il rapporto tra condanne a morte eseguite e popolazione del paese. Dopo l’accordo nucleare Khamenei si è affrettato a ripetere che non vi saranno altre forme di cooperazione con l’Occidente e che si ritiene impegnato personalmente a evitare qualsiasi attenuazione nel severo rispetto della legge islamica.
Il 3 marzo scorso è stato presentato il Rapporto del Segretario Generale delle Nazioni unite sulla situazione dei diritti umani in Iran, ai sensi della Risoluzione 70/173 dell’Assemblea Generale. Pur trattandosi di un documento che come tutti i rapporti dell’Onu viene mitigato dalle controdeduzioni che i Paesi sotto esame hanno facoltà di produrre, costituisce un circostanziato resoconto di estrema gravità.
Esso afferma: ”l’applicazione della pena di morte persiste ad un ritmo elevatissimo e allarmante, anche per reati connessi alla droga e nei confronti dei minori. Le punizioni corporali, le amputazioni, le fustigazioni, l’accecamento forzato, sono stati frequentemente applicato contro individui in detenzione”.
La repressione dei giornalisti’ degli human rights defenders, in particolare degli “human rights defenders”, delle donne, si è intensificato, con largo numero di persone arrestate, detenute e incriminate per l’esclusivo e pacifico esercizio della loro professione, e per i loro legittimi diritti di libertà di espressione e di associazione. Nessun miglioramento si è verificato per la situazione delle minoranze etniche e religiose, che restano sottoposte a restrizioni.
Donne e ragazze continuano a subire discriminazioni nei loro diritti in materia di matrimonio, occupazione, e partecipazione politica.
Le richieste di visite di esponenti delle Nazioni Unite incluso lo Special Rapporteur sulla situazione dei diritti umani in Iran sono rimaste senza alcuna risposta.”
Alcuni passaggi del Rapporto di Ban Ki-moon bastano a dare il senso di gravità della situazione e la prova degli ulteriori arretramenti che caratterizzano la Presidenza Rouhani:
- pena di morte: il Segretario Generale “resta allarmato dallo sconcertante numero di esecuzioni… almeno novecento esecuzioni hanno riguardato donne e bambini nel solo 2015 – almeno otto prigionieri politici sono stati giustiziati sempre nel 2015 con l’accusa di Moharebeh – reato contro l’Ordine Pubblico – e altri per motivi politici… Nel marzo 2015 sei membri della Comunità Curda sono stati giustiziati per le stesse accuse, nonostante i rilievi di illegalità sui processi. Nell’agosto 2015 Mohammad Ali Taheri, fondatore di un movimento spirituale e teorico della medicina non convenzionale conosciuto internazionalmente è stato condannato a morte, così come Shahram Ahmadi, attivista religioso accusato di proselitismo Sunnita”. Sulle ripetute esecuzioni di minori nel corso del 2015 lo Special Rapporteur dell’ONU ha intimato all’Iran di “fermare immediatamente l’esecuzione di bambini” così come il Segretario Generale ha sottolineato che il diritto internazionale proibisce tassativamente l’esecuzione dei minori.
- Tortura e trattamenti degradanti. Secondo il Rapporto vi sono stati nel 2015 almeno 21 casi documentati di accecamento, di amputazione di arti di lapidazione e di fustigazione. La lapidazione è stata praticata in casi di adulterio. Inoltre “la persistenza della tortura e altri punizioni crudeli, inumane e degradante in numerosi luoghi di detenzione e di prigionia rimane una preoccupazione seria. Percosse, costrizioni fisiche, diniego di assistenza medica, isolamento sono i metodi più diffusi specialmente contro gli human rights defenders, i giornalisti, gli attivisti politici e gli appartenenti ai gruppi religiosi o a minoranze”.
- Restrizioni alla libertà di opinione e di espressione. “Il Segretario Generale nota le apparenti buone intenzioni del Presidente dell’Iran nell’impegnarsi a ridurre le restrizioni alla libertà di espressione e la sua advocacy per la libertà di parola quale fondamentale diritto umano. Tuttavia tutto ciò deve essere tradotto nella realtà. E ancora negli ultimi mesi del 2015, il già limitato spazio per la libertà di espressione, particolarmente per quanto riguarda i giornalisti e social media è stato ulteriormente eroso. Il Segretario Generale è particolarmente preoccupato per la repressione dei Giornalisti e attivisti sui Social Media verificatesi prima delle elezioni parlamentari.”
- Libertà di riunione e di associazione. Il Rapporto ONU sottolinea come vi siano state cinque comunicazioni nel 2015 per richiamare l’attenzione di Teheran agli obblighi del Paese per rispettare e proteggere i diritti di tutti gli individui ad associarsi liberamente ed a esprimere le loro opinioni. “Il Segretario Generale resta preoccupato per l’ampio numero di prigionieri politici, inclusi gli appartenenti a partiti che continuano a scontare pene riguardanti l’esercizio delle loro libertà di riunione e di associazione.
- La situazione delle donne. Il Segretario generale resta preoccupato dalle violazioni dei diritti umani delle donne in relazione in particolare alla liberta di movimento, al diritto alla salute e al lavoro. Non ci sono stati progressi negli sforzi del Governo iraniano a porre termine ai matrimoni tra bambini e minori. Il 21% delle donne iraniane tra i 15 e i 19 anni risultano essersi sposate durante l’infanzia e l’adolescenza.
- Trattamento delle minoranze etniche e religiose. “ Le Nazioni Unite continuano a esprimere preoccupazione per la situazione delle minoranze etniche e religiose sottolineando l’assenza di miglioramenti in tale campo.” A titolo di esempio ai membri della Comunità Baha’i è vietato l’accesso alle Università. La disinformazione contro i Baha’i, l’incitamento all’odio nei loro confronti e la distruzione dei loro cimiteri, continua a preoccupare fortemente.
Per quanto riguarda il ruolo regionale dell’Iran, l’ingerenza iraniana negli affari interni degli altri paesi e attività destabilizzanti nella regione sono state stigmatizzate ancora recentemente, dopo l’entrata in vigore dell’Accordo nucleare, dalla Lega Araba e dai Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Teheran mantiene attivi collegamenti con organizzazioni terroristiche, motivo per il quale il Paese è sempre inserito da Washington tra gli Stati sostenitori del terrorismo. Il “nuovo corso” del Presidente Rouhani sta dando i frutti sperati sotto il profilo di una “gestione delle crisi regionali “ in direzione compatibile con le priorità dell’Occidente?
Per tutto il trascorso decennio l’influenza iraniana sull’intera regione si è ulteriormente consolidata:
– grazie ad Al Maliki, l’Iran ha governato per interposta persona l’Iraq con i risultati che vediamo
– è stata fomentata la rivolta Houti in Yemen, la ribellione in Bahrein, e alimentato il contrabbando di armi e i finanziamenti ad Hamas a Gaza; – si è incoraggiato Hezbollah, a colpire Israele dal Libano, e a intervenire in Siria;
– Teheran ha inviato in Siria un ingente corpo di spedizione di Pasdaran e di milizie sciite irachene, reclutando combattenti afghani di fede sciita dal Paese confinante e tra i rifugiati Hazara in Iran. In Siria e in Iraq la repressione antisunnita, sin da prima dell’emergere dello Stato islamico, è stata soprattutto opera di queste milizie.
– Siria, Iraq, Yemen, Libano, sono Paesi “irrinunciabili” per l’Iran, come dichiarano pubblicamente i Vertici politici e militari a Teheran.
La strategia Iraniana trova nelle crisi Siriana e Irachena occasioni irripetibili, paragonabili solo a quella del 2003 in Iraq: lo Stato Islamico ha convinto la coalizione occidentale -araba che il “male necessario” è quello di appoggiare gli sciiti contro i sunniti, sia pure dando per scontato che Assad ne uscirà vincente e che la preminenza scita a Baghdad si consoliderà ulteriormente.
Il problema, che riguarda direttamente l’Europa e l’Italia, è ben lontano dal poter essere risolto con la distruzione dello Stato Islamico. Non ci possiamo aspettare che la riedizione del “metodo Maliki/Assad” in Iraq e in Siria, all’insegna del revanscismo sciita e dell’esclusione dei sunniti dal governo e dall’economia del paese, senza alcuna garanzia per la loro sicurezza e per il loro futuro, non abbia conseguenze gravi in tutta l’area del “Grande Mediterraneo”. Vediamo avanguardie della radicalizzazione sunnita nell’insediamento ormai radicato dello Stato Islamico in Libia, un’enorme minaccia per l’Italia e per l’Europa. Lo vediamo nel Sinai egiziano; nei gruppi salafiti risvegliatisi in Tunisia sin dall’inizio del 2013 con l’assassinio due leaders dell’opposizione laica, Chokri Belaid e Mohamed Brahmi, e l’invio di centinaia di foreign fighters in Siria nelle file del Daesh; nelle operazioni di Boko Haram in Nigeria, dei gruppi terroristici dell’Azawad in Mali, di quelli operanti tra Chad, Niger, Libia e Algeria; nel susseguirsi di stragi in Kenia rivendicate dagli Shebab.
È sterile dibattere su errori e superficialità nelle vicende irachene e siriane di quest’ultimo decennio. Molto é dipeso dalla pericolosa propensione europea, e italiana, a mettere la sicurezza internazionale e la prevenzione delle crisi a livelli molto bassi delle priorità politiche.
Il disastro verificatosi nella ricostituzione della sicurezza irachena, di cui è simbolo la conquista di Mosul da parte del Daesh il 12 giugno 2014, è pari soltanto ad un altro fallimento che, non a caso, sta pesando enormemente sulla crisi libica e, proprio da quando l’Isis ha raggiunto l’apice del suo successo a Mosul in Iraq, sostiene una parallela affermazione dello Stato Islamico in Libia. È opinione diffusa che la causa di tutti i mali attuali della Libia sia stata l’intervento occidentale contro Gheddafi e la sua scomparsa il 20 ottobre 2011. Non ne sono tanto sicuro. Evitando di proteggere la popolazione libica dalla repressione di Gheddafi si sarebbe risparmiata alla Libia una guerra civile come quella che ha distrutto completamente la Siria? Una guerra che ha incrinato a nostro svantaggio fragilissimi equilibri sui quali potevamo contare in Medio Oriente. Sono invece convinto che tra fine 2011 e autunno 2012 i Paesi intervenuti in Libia abbiano sottovalutato la deriva del Paese in senso fondamentalista che adesso si è purtroppo realizzata. Distolti da altre priorità, come la crisi nell’eurozona, europei e americani si sono impegnati per ricostituire un quadro di sicurezza in Libia solo col contagocce. Anziché esigere dai diversi governi transitori succedutisi per tutto il 2012 uno sforzo immediato per il controllo dei confini terrestri e marittimi, l’Occidente ha chiuso gli occhi. Invece di avviare programmi massicci per smobilitare 162.000 miliziani, attivi in una miriade di entità grandi e piccole, legate a gruppi e personaggi interessati esclusivamente a rafforzarsi a livello locale si è guardato altrove; abbiamo usato guanti di velluto; siamo stati condizionati da un “complesso post coloniale” ampiamente strumentalizzato dai libici.
“Ownership libica”, “priorità del business”, forniture petrolifere erano più importanti di una decisa strategia per la sicurezza, considerata un fastidioso “optional”, impopolare in Europa. Le elezioni politiche del luglio 2012, pur svoltesi nella direzione di una Libia sostanzialmente unitaria e democratica, rappresentavano l’ultimo atto positivo prima della accelerazione disgregatrice. Su quest’ultima agivano gli islamisti. Essi traevano un formidabile incoraggiamento ideologico e materiale da quanto stava avvenendo in Egitto con la Presidenza Morsi. Verso la fine del 2012 il tempo era praticamente scaduto. L’assassinio dell’Ambasciatore americano Chris Stevens a Bengasi nel settembre 2012 a opera di Ansar al Sharia preannunciava drammaticamente quanto sta oggi accadendo.
Cosa è mancato tra la fine del 2011 e l’autunno 2012? Quale ”lezione “ dobbiamo trarne nel confrontare oggi l’Isis in Libia, e in Europa? Mentre l’amministrazione americana e i Governi europei, tra cui il nostro, si concentravano sulla distruzione dell’arsenale chimico in Libia, sfuggivano però al controllo ingenti quantitativi di armamenti che si sono poi diffusi non solo in tutti i Paesi vicini , ma fino al Sinai , e al Medio Oriente.
Vi sono quindi alcune essenziali conclusioni che possiamo trarre da questo quadro d’insieme:
- La prima è sui principi di fondo della politica estera e di sicurezza. L’Europa non si può permettere di “aspettare sempre l’America”.
- La seconda considerazione si collega a un auspicio ribadito tempo fa da Jürgen Habermas: affinché l’Europa metta in campo la sua potenza a livello mondiale essa deve “civilizzare il capitalismo e instaurare i diritti umani”. Questo riguarda in modo speciale la nostra azione nel Grande Mediterraneo e i rapporti con l’Iran.
- La terza osservazione riguarda priorità, contenuti, e proposte. Distinguiamo tra lungo e breve termine. Se la risposta europea e occidentale alle “Primavere Arabe” è stata inadeguata, dovremmo aver anche chiaro che esse hanno segnato la tappa di un lungo e incerto percorso verso pluralismo, stato di diritto e diritti umani che può essere rovesciato in ogni momento.
Sotto questo profilo, le relazioni tra i Paesi Occidentali e l’Iran devono basarsi su una strategia che rifletta, oltre alle evidenti opportunità, gli aspetti critici sui quali concentrare l’attenzione dei nostri Governi e della nostra opinione pubblica.