Discorso “LA LUNGA STORIA DEL MEDITERRANEO: IMMIGRAZIONE, TERRORISMO, SICUREZZA”

Brescia, 9 Luglio 2015

Stiamo sottovalutando le “guerre” all’Occidente della Jihad islamica, come abbiamo  ignorato il prevedibilissimo “tsunami” migratorio?

 

Venerdì 26 giugno attacchi quasi simultanei sono stati rivendicati dallo Stato Islamico in tre diversi continenti: in Europa a Lione; in Africa a Tunisi; in Medio Oriente a Kuwait. L’Isis ha voluto dimostrare una sua crescente capacità di colpire lontano. La sintonizzazione e le modalità degli attentati erano intese ad impressionare il pubblico, oltre che a “testare” le tecniche dell’Isis nel portare la minaccia ovunque, nell’impiegare la radicalizzazione via internet, nel trovare nuovi seguaci nelle moschee, nell’attrarre “foreign fighters” sempre più numerosi, e “delocalizzati” rispetto ai teatri abituali di scontro negli “Stati falliti” (Siria, Iraq, Libia, Somalia) o interni all’Islam.

 

Nei giorni seguenti a questa triplice strage gruppi legati all’Isis hanno effettuato massicci attacchi contro obiettivi nel Sinai uccidendo decine di soldati egiziani. Persino a Gaza, dove il controllo di Hamas sembrava sino a poco fa incontestato, lo Stato islamico si sta affermando ed ha lanciato un’offensiva mediatica – con dichiarazioni sui social e campagne web – per affermarsi come interprete esclusivo della Sharia, contro gli “apostati “ di Hamas e delle altre organizzazioni palestinesi. Abu Bakr al- Baghdadi aveva preannunciato a metà maggio un Ramadan sanguinoso, con attacchi anche all’Arabia saudita, poi avvenuti con gli attentati alle moschee scite nella Provincia orientale del paese.

 

In Siria nel frattempo si è consolidato un nuovo fronte jihadista tra al-Qaeda, Al Nusra  e Ahrar al- Sham per il completo controllo dell’importantissimo nodo strategico di Aleppo , dove appare mai come prima in pericolo la sopravvivenza del regime di Assad. L’alleanza per la liberazione di Aleppo non rappresenta peraltro un successo scontato per lo Stato islamico: le forze che la compongono, pur tutte impegnate a istaurare la Sharia, sono entrate anche recentemente in contrasto tra loro. Ciò potrebbe aprire nuovi spazi, se noi occidentali avessimo una vera strategia in Siria. Infatti il riemergere della conflittualità interna alle formazioni jihadiste consentirebbe una ripresa dell’insorgenza laica anti-islamista, un’insorgenza che aveva sino allo scorso anno controllava parte della città. Ma poi jihadisti dell’Isis e di Al Nusra venivano inopinatamente aiutati dalle proposte  dell’inviato Onu De Mistura, apertamente favorevoli ad Assad, e trovavano il modo di intensificare la loro offensiva contro i moderati, che in quel momento costituivano il vero problema per Assad. Ennesima dimostrazione delle connivenze tra il regime siriano e l’Isis.

 

Circola l’ipotesi che il nostro paese sia stato sino ad ora “risparmiato”. Ma sia chiaro, questo è accaduto per motivi ben diversi dalle operazioni di polizia che hanno individuato alcune cellule di terroristi in Lombardia, Lazio e Campania. Cellule che rappresentano solo la punta dell’iceberg di una radicalizzazione assai più diffusa. Le organizzazioni qaediste avrebbero convenienza a concentrarsi in questa fase su Francia e Belgio; lasciando l’Italia – come faceva il terrorismo palestinese tra gli anni ’70 e ’80 – in una sorta di retrovia logistica. Comincerebbero a dimostrarlo i collegamenti tra gli attentatori al Museo del Bardo e alcuni tunisini da noi. Ma l’estrema precarietà della sicurezza nel Mediterraneo e in Medio Oriente ci coinvolge ormai direttamente. Il Governo Renzi e il mondo dell’informazione praticano invece in materia di sicurezza, come sull’immigrazione, l’euro, le banche e altro, una “politica placebo”, morfinizzante, antiallarmista, così da evitare pressioni dell’opinione pubblica affinché gli italiani dentro e fuori i confini nazionali siano più seriamente protetti e informati.

 

Quale è realmente il quadro delle minacce che riguardano anche il nostro Paese e che possono mettere in pericolo i tantissimi italiani che lavorano, viaggiano, vivono all’estero?

Nessun serio analista dissente da quanto David Gardner ha scritto sul Financial Times settimana scorsa: “anni di terrore dell’Isis stanno davanti a noi …”. E non solo dell’Isis. Si individuano in particolare quattro minacce:

  • la distruzione dell’integrità territoriale in Iraq e in Siria può avere effetti domino in una regione di prioritario interesse occidentale;
  • i successi dell’Isis producono nuovi adepti. Circa 25000 giovani da diciannove paesi, quasi un terzo di loro da paesi occidentali, sono partiti per la Siria entrati nelle sue formazioni, acquisiscono esperienze di combattimento e di proselitismo che sono pronti a riutilizzare nei paesi di provenienza. È un fenomeno di gran lunga più importante di quello che si era già verificato nel 2003 in Iraq e negli anni ’80 con l’afflusso di Mujiaheddin in Afghanistan per combattere l’invasione sovietica;
  • lo Stato islamico si collega in modo molto più rapido ed efficace di quanto abbia mai saputo fare al- Qaeda con altri gruppi estremisti nel mondo, in Algeria, Libia, Nigeria, Egitto, Somalia, Afghanistan; gruppi che ne emulano la ferocia, gli obiettivi, i metodi, le capacità comunicative e di proselitismo;
  • il messaggio dell’Isis è un potente strumento di radicalizzazione nelle comunità islamiche; ha già motivato atti di terrorismo individuali o di piccoli gruppi in Europa, Usa, Canada, Australia; diversi arresti hanno impedito altri attacchi; ma è inevitabile che il fenomeno si espanda.

 

Oltre all’Isis, numerose organizzazioni jihadiste  non sempre collegate allo Stato islamico rappresentano una minaccia per l’Occidente. Tra queste, le più significative per capacità di colpire in Occidente sono:

*    al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP), con una lunga storia di attentati; il più spettacolare e potenzialmente destabilizzante è stato quello contro il Ministro dell’Interno ed attuale vicario nella linea dinastica Saudita, Principe Muhammad bin Nayef, salvatosi miracolosamente;

*    al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) con armi  di ogni tipo provenienti dagli enormi arsenali libici. È stata la saldatura di questa componente con formazioni Tuareg e Jihadiste nell’Azawad, a nord del Mali, a rendere necessario un urgente intervento di “peace enforcement” dell’Unione Africana, autorizzato dalle Nazioni Unite nel 2012, voluto all’inizio soprattutto dalla Francia. L’intervento è stato determinante per fermare l’avanzata jihadista verso sud e per rilanciare un percorso politico, ancora in via di consolidamento.

*    al-Qaeda Senior Leadership (AQSL) attiva in Afghanistan e nelle Federally Administered Tribal Areas pakistane, indebolita dopo le operazioni militari e di intelligence pakistane e americane  dopo il 2008, ma pur sempre con capacità di colpire e di avvantaggiarsi di un rapporto mai interrotto con diverse fazioni Talebane in entrambi i paesi; non dimentichiamo il serio pericolo che esiste per i nostri cooperanti e operatori economici in Pakistan, come è parso evidente con la drammatica uccisione di Giovanni Lo Porto. Episodio che ha evidenziato un grave scollamento di intelligence  , e sembra anche a livello politico, tra Roma e Washington nella conduzione dell’intero caso,

*    in tale contesto preoccupa diversi servizi occidentali la rete creata in alcune impervie regioni afghane dal leader qaedista di origine qatarina al-Qahtani;

*    il Gruppo Khorasan con pakistani operanti in Siria per sostenere al-Nusra contro Assad, e per creare “santuari” in Siria dai quali preparare attacchi contro paesi occidentali;

*    Boko Haram  in Nigeria ,responsabile di migliaia di vittime, distruzione di decine di Chiese cristiane , e di centinaia di rapimenti anche di italiani, tra i quali l’Ing. Lamolinara ucciso dai sequestratori islamisti tre anni fa. Boko Aram ha collaborato ad atti di terrorismo in Africa occidentale, anche se non si è ancora manifestata in Occidente. Ma nella sempre più numerosa diaspora nigeriana sono attivi trafficanti di esseri umani, droga, prostituzione contigui a terroristi in Africa occidentale, Sahel e Maghreb;

*    organizzazioni terroristiche  come Ansar al –Sharia , radicata in Libia a fianco dello Stato Islamico e al-Shabab originaria del Corno d’Africa , contrastata con successo alterno dal Governo di Mogadiscio, ma sempre piu pericolosa in Kenia e in Etiopia;

*    ugualmente pericolosa la galassia del terrore riconducibile all’universo scita, sostenuto dall’ Iran: Hezbollah dispone non solo di decine di migliaia di miliziani  in Libano, Siria, Iraq , ma può anche contare su una rete di agenti estesa sino all’America latina e al Centro America. Teheran sostiene attivamente anche organizzazioni a matrice sunnita, o “laica”, come Hamas e Jihad Islamica a Gaza e nella West Bank, e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.

 

Questo allarmante quadro dovrebbe dare la dimensione di una minaccia estremamente concreta e diretta  alla nostra sicurezza. Farvi fronte significa anzitutto maturare una precisa volontà politica, sostenuta a livello nazionale da una corretta informazione pubblica; significa destinare risorse adeguate alle strutture di intelligence e della sicurezza; e significa rafforzare – ed è questo l’aspetto di fondamentale importanza – la collaborazione e la coesione con tutti i Governi stranieri che condividono i nostri stessi interessi di sicurezza. È un terreno sul quale la coesione di tutto l’Occidente costituisce un valore preziosissimo. Perché solo i Paesi retti da democrazie mature e improntate allo Stato di Diritto hanno saputo dimostrare di poter combattere e vincere terrorismo e radicalizzazione senza derogare al rispetto dei diritti dell’uomo, della libertà di informazione, del giusto processo. Combattere il terrore con stragi indiscriminate di popolazione, come avvenuto in Siria, in Cecenia, in Xiniang costituisce la formula perfetta per alimentare il contagio. E quasi sempre sono i Paesi occidentali a farne le spese, in tutti i sensi.

 

Vi deve essere inoltre un deciso impegno tanto delle Autorità di Governo, quanto di noi tutti ad evitare la diffusione dell’intolleranza, della propaganda all’odio, della predicazione e della educazione settaria, in una parola, della radicalizzazione tra le comunità immigrate, ed al tempo stesso ad agire in sostegno di una “transizione” verso lo Stato di Diritto nei Paesi maggiormente colpiti dal fenomeno jihadista. Un modello è il programma di anti-radicalizzazione attuato nell’ultimo decennio dal paese dove vive la più numerosa popolazione Musulmana del pianeta: l’Indonesia.

 

Non è un caso se i “foreign fighters” indonesiani partiti per la Siria siano stati una piccola percentuale di quelli partiti dai Paesi Europei dove risiedono le maggiori comunità islamiche. E neppure è un caso se gli attentati jihadisti che avevano causato tra il 2001 e il 2006 in Indonesia più di trecento vittime, abbiano causato negli ultimi dieci anni quattordici vittime e siano diminuiti in numero del 70%. Il programma indonesiano di anti- radicalizzazione è rivolto a tutte le componenti della società, ha diffusione capillare nell’intero paese, poggia su due messaggi destinati specialmente ai giovani: il primo, che l’interpretazione estremista dell’Islam e incompatibile con il Corano; il secondo, riguarda il valore della tolleranza. Si tratta di uno sforzo molto rilevante che il Governo attua attraverso le numerosissime organizzazioni religiose, la collaborazione con Imam, le moschee, l’intero sistema scolastico, e attraverso una politica culturale a tutto campo, dall’arte, alla editoria, alla informazione.

* * * *

 

Nel “Grande Mediterraneo” le mutazioni innescate dalle Primavere Arabe hanno trovato un Occidente impreparato ad affrontare le minacce che si stavano addensando sulla sua sicurezza. Le nostre scelte sono parse tardive e carenti  di visione strategica.  Abbiamo ricercato troppi compromessi su valori di fondo. Nel frattempo le contraddizioni nel mondo Arabo e l’atteggiamento antagonista della Russia, hanno lasciato  campo libero a profonde “mutazioni” delle crisi in atto, aggravando il confronto settario all’interno dell’Islam con forme nuove e ancor più diffuse di fondamentalismo. Appare ineludibile una diversa, pubblica consapevolezza  delle sfide che abbiamo di fronte, delle politiche e della coesione necessarie ad affrontarle.

 

  1. La distrazione dell’Occidente.

 

L’Eurasia Group è un importante gruppo americano di consulenza internazionale. Ha tra i propri clienti alcune tra le maggiori multinazionali. Nel settembre 2011, quasi un anno dopo il disperato gesto di Mohammed Bouazizi che segnava l’inizio delle “Primavere arabe”, l’Eurasia group pubblicava la lista dei principali fattori di rischio  da tener d’occhio per la stabilità regionale e globale. Nessun Paese Arabo entrava nei “top risks”. Alcune “costanti” per la criticità dell’intera regione erano opportunamente menzionate nel Rapporto dell’Eurasia Group, come il programma nucleare iraniano. Ma i grandi sconvolgimenti politici e sociali in Medio Oriente già in atto da mesi restavano semplicemente fuori dal radar.

 

C’erano stati lunghi periodi diincubazione del dissenso e della rivolta. Il radicamento dell’Islam politico e le sue deviazioni radicali venivano da molto lontano. E segnali precisi che anticipavano una contestazione diffusa e durevole nel tempo si  coglievano sul web sin quattro o cinque anni prima di Piazza Tahrir.

 

In Iran “l’onda verde” dei riformisti e dei giovani  aveva rotto gli argini nel 2009, per poi essere repressa con estrema violenza dopo un’elezione Presidenziale scippata. Il Grande Mediterraneo, si presentava sempre più come un esteso “arco di crisi” da Gibilterra alla Mesopotamia, caratterizzato da dinamiche inedite sul piano demografico, migratorio, della radicalizzazione fondamentalista, del terrorismo.

 

L’Europa e l’America, ma non solo loro, avevano preferito sottovalutare i segni premonitori dei mutamenti del 2011. Avevano continuato a contare sul fatto che i Leaders Arabi erano riusciti a mantenere una certa stabilità facendo di volta in volta leva sul panarabismo. Una stabilità assai fragile perché costava molto ai popoli sui quali essa era costruita.

 

L’episodio dei “global risks” individuati nel 2011 da Eurasia Group non è certo un caso isolato di “distrazione” occidentale.

 

Ancora: nel gennaio 2015, quest’anno, il Rapporto “Global Risk” del World Economic Forum attribuisce al “collasso delle strutture statali” e alla “dissoluzione della Governance nazionale” una posizione molto alta tra i “rischi globali”; ma lo fa con un ritardo di ben quattro anni sulle Primavere Arabe, tre anni dopo l’inizio della guerra civile in Siria, tre anni dopo la disgregazione delle strutture statuali in Libia, e almeno un anno dopo il propagarsi dell’Isis da Siria/Iraq a diversi altri punti dell’arco di crisi mediterraneo.

 

C’è quindi una perdurante sottovalutazione delle crisi che abbiamo alle porte di casa. È come un freno psicologico, impregnato di ideologismi, sui temi vitali per la nostra sicurezza . Un atteggiamento che caratterizza, e distrae, l’opinione pubblica e la politica di molti paesi Europei e Atlantici. Quanto è diverso l’atteggiamento dei Governi in altri “stakeholders”, soprattutto Russia, Iran, Cina! Non si deve trascurare l’asimmetria tra un “West” – l’Occidente – riluttante a fare entrare nel discorso pubblico i grandi temi della sicurezza, e un “Rest” – l’altra parte del mondo- dove la sicurezza viene brandita come strumento di legittimazione nazionalista, di consenso popolare, di protagonismo regionale e globale.

 

  1. Guardare l’ISIS senza vedere l’Iran.

 

La conferenza del 3 giugno scorso dei Paesi che partecipano alla “guerra all’Isis” ha sottolineato l’esigenza della riconciliazione in Iraq, della partecipazione Sunnita al governo, del riarmo delle tribù sunnite in funzione anti Isis. Il Primo Ministro al-Abadi ha addebitato all’insufficiente sostegno occidentale i recenti rovesci militari. Ma ha dovuto sentire critiche francesi e di altri- ma non dell’Italia- per le politiche settarie guidate dall’Iran, che il Governo di Baghdad continua a praticare. Otto anni di dominio scita-iraniano in Iraq scoraggiano i sunniti dal prendere le armi contro l’Isis, e li fanno sentire sempre più emarginati e in pericolo. Ma al-Abadi non ha potuto o voluto cambiare rotta.

 

Appena prima della Conferenza di Parigi per l’Isis, sull’altro fronte, quello  della guerra civile siriana, il Presidente Rouhani riceveva il Presidente del Parlamento siriano Mohammad al-Laham e dichiarava solennemente: “L’Iran sosterrà il Presidente Bashar al-Assad sino alla fine … non dimentica i suoi obblighi morali verso il Governo siriano”. E il comandante delle Forze speciali Quds, il Gen. Qassem Soleiman ammoniva che “ci saranno sorprese”. In effetti il reclutamento di volontari  sciti assoldati per combattere in Siria sta aumentando esponenzialmente.

Ci sono già in Siria diecimila miliziani iracheni sciti e settemila Hezbollah libanesi. Agenti iraniani in Afghanistan, Pakistan e in Asia Centrale starebbero reclutando a pieno ritmo, anche sul web.

 

Il rapporto tra l’Iran scita e gli Assad precede la rivoluzione Khomeinista. Tuttavia Hafez al- Assad aveva tenuto a coltivare la centralità della Siria nei complessi giochi di potere regionale. Con Bashar Assad il rapporto con l’Iran diventa del tutto subalterno e dipendente via via che la criminale repressione alimenta, volutamente, il jihadismo sunnita e l’Isis.

 

Il contrasto all’Isis diventa così occasione perfetta per iniziative iraniane non soltanto nel mondo scita ma anche in campo sunnita , insieme ad Hamas , Islamic Jihad a Gaza, a gruppi di al- Qaeda e Talebani. La macchia d’olio dell’influenza iraniana tende a espandersi verso forze fondamentaliste sunnite che vedono male un “Califfato” che autoimposto dall’esterno. La visione millenarista e rivoluzionaria fa pretendere alla teocrazia iraniana di  essere la “guida” di tutto l’Islam.

 

Da quando la “guerra all’Isis” è stata lanciata lo scorso agosto dalla coalizione arabo-occidentale, di fatto insieme all’Iran, è iniziata una campagna di bombardamenti contro l’Isis con gravi “danni collaterali”, e la situazione  non fa che peggiorare; le vittime civili aumentano, così come sfollati, profughi, distruzioni.

 

III. Le “mutazioni” dei conflitti intra-statuali in Siria, Iraq, Yemen, Libia.

 

Non eravamo stati in pochi i primi giorni d’agosto  dello scorso anno, a sottolineare l’errore di azioni militari del tutto prive di una strategia politica, quale condizione del sostegno militare al Governo iracheno. Questa deve essere la linea dell’Italia e dell’Europa. Dobbiamo sottolineare con decisione, non solo nelle pieghe di un comunicato, che occorre un’intesa politica “condizionante” per porre fine ai massacri in Iraq e Siria. Diversamente i bombardamenti non estirperanno mai il jihadismo e lo Stato Islamico . E saranno sempre più la dimostrazione di una assai improvvida “alleanza” con Assad, Khamenei, Hezbollah e simili, che sono pericolosi almeno quanto i fondamentalisti sunniti.

 

Le guerre intra-statuali in Siria, in Iraq, Libia e ora anche in Yemen, hanno questo in comune: che sono iniziate come rivolte contro regimi corrotti e sanguinari ; ma poi , per assoluta carenza di un “percorso di riforme” all’interno, e in presenza di contrapposti interessi nella Comunità internazionale, hanno dato luogo a rapidissime “mutazioni” a carattere  etnico-religioso, con fenomeni che si chiamano Isis in Iraq, Siria ed ora anche in Libia, Houti e al- Qaeda in Yemen. Il principale alimento a queste mutazioni proviene dal settarismo dell’Iran, contrastato unicamente dai Paesi del Golfo.

 

Le quattro gravi crisi devono essere risolte prima che il crollo di assetti regionali del XX secolo basati su realtà statuali multietniche  lasci il campo a una vastissima conflagrazione tra mondo scita e mondo sunnita. Spetta ai Paesi Occidentali e alla Lega Araba, che si era impegnata con sanzioni e missioni di osservatori per fermare la criminale violenza del regime siriano, subordinare il sostegno militare a Baghdad e a Damasco alla creazione immediata di Governi di Unita ‘ Nazionale, garantiti dai Paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Parigi. Ugualmente garantiti devono essere i principi e le tutele costituzionali che esistono nell’ordinamento iracheno, ma che sono state del tutto disattese; e che per lo Yemen sono state già ripetutamente definite. Sono tali principi e tutele a dover essere elemento costitutivo di una urgente transizione in Siria.

 

Una posizione ferma nei confronti dell’Iran  è essenziale. I segnali che noi europei e italiani continuiamo ad inviare a Teheran sono sbagliati; incoraggiano gli Ayatollah a perseguire nelle ambizioni regionali e  visioni messianiche proprie alle sue più retrive componenti fondamentaliste.

 

Dobbiamo invece essere chiari sul nostro sostegno al pluralismo politico ,ai diritti umani, alle aspirazioni di un mondo giovane e istruito sempre più insofferente all’oppressione della teocrazia. Sono queste le linee di politica estera che dovrebbero guidare una seria azione per la stabilità di una regione al momento dominata da un inaccettabile settarismo, che non dobbiamo assolutamente condividere.

 

In questo quadro dovremmo  riconoscere alla Russia di essere un fondamentale “stakeholder”. Non si tratta di un auspicio formale, né di illudersi che sia per ora immaginabile riattivare con Mosca quel partenariato che l’Italia ha incoraggiato anche negli ultimi anni, e che riuscivamo ancora a tenere in atto nel 2012/2013. Si tratta piuttosto di motivare la Russia nella transizione siriana e irachena.

 

  1. Libia.

 

L’inviato speciale dell’Onu, Bernardino Leon, sostenuto da parallele iniziative europee e Arabe, è da oltre un anno alla  ricerca di un’intesa tra i due principali schieramenti: Alba e le componenti islamiste di Tripoli da un lato;  Operazione Dignità in sostegno del Parlamento trasferitosi a Tobruk, dall’altro. Due schieramenti che si frammentano e incrociano con una pluralità di milizie locali, fazioni, personaggi che agiscono per mero calcolo personale. Vi è, molto preoccupante, l’elemento Jihadista ,con Ansar al-Sharia e Isis.

 

L’attivismo diplomatico non è certo mancato. Ne sono state cornice le riunioni euromediterranee “5+5″, conferenze  internazionali, le discussioni Ue a Bruxelles e Onu a New York. La febbre è ancora cresciuta per il sovrapporsi, alla crisi di altre immediate criticità:

1)   il decuplicarsi in soli pochi mesi del traffico di migranti verso le nostre coste, con ripetute tragedie in mare, anche dopo quella di Lampedusa;

2)   il radicarsi dello Stato Islamico a Derna, con collegamenti jihadisti a Tripoli e Sirte.

3)  il rapporto tra criminalità coinvolta nel traffico dei migranti e organizzazioni terroristiche; e in Italia analoghi collegamenti tra le cosche di Mafia Capitale e dell’immigrazione clandestina.

Nell’immediato, la nostra sicurezza deve essere tutelata. Esistono basi legali per agire a titolo nazionale con misure di contrasto al traffico dei migranti perché stiamo  subendo la minaccia di organizzazioni criminali e terroristiche. Le azioni di autotutela perfettamente legittime anche senza pronunce di un Consiglio di sicurezza dell’ONU paralizzato dagli interessi nazionali dei cinque membri permanenti. Ed è poco comprensibile che da due anni si stia solo discutendo  “aspettando l’ONU”. A meno che l'”andare a New York” sia il modo per trasferire sempre la responsabilità di decisioni difficili a qualcun altro.

 

Nel medio e nel lungo periodo vi è la necessità di promuovere:

*    a livello Europeo, una normativa comune sul diritto d’asilo; una  ripartizione degli oneri di accoglienza tra i Paesi membri per quanti hanno diritto allo status di rifugiato; regole condivise e cogenti sui rimpatri; accordi con i paesi di provenienza finanziamenti ad hoc nei programmi di Partenariato Mediterraneo.

 

*   sul piano nazionale, interventi legislativi che rispondano a un disegno coerente di inserimento delle comunità immigrate nella realtà sociale, culturale, economica del nostro paese.  Il rispetto della legalità, dei percorsi di scolarizzazione, dei principi costituzionali di libertà e uguaglianza sembra  irrinunciabile. Così come la lotta all’intolleranza, alla discriminazione, al fondamentalismo.

 

Paesi europei che hanno una centenaria tradizione di rapporti con l’Islam sul proprio territorio, come l’Austria, hanno adottato leggi sul riconoscimento della libertà religiosa e dei culti che meritano di essere valutate anche da altri in Europa.

 

La stabilità e il consolidamento istituzionale della Libia rappresenta una delle priorità  in assoluto più elevate per l’Italia. Il ginepraio di conflitti nel quale il Paese sta affondando è conseguenza dell’interruzione del processo costituzionale e della sempre più condizionante entrata in scena delle forze islamiste in tutto il nord Africa  a fine 2012, un anno dopo l’uccisione di Gheddafi. Anche in Libia si è perso troppo tempo. Il superamento della crisi libica richiede enorme impegno: diplomatico, di concertazione internazionale, di risorse finanziarie e umane, e di assistenza militare e di sicurezza. Ridare prospettive a un paese fonte di tensioni destabilizzanti è necessità vitale per l’Italia. Ancor più lo è per motivi economici ,di approvvigionamento energetico, di presenza delle nostre aziende, oltre che per i legami storici tra Italia e Libia.

 

Mentre proseguono i tentativi dell’Onu di portare le diverse fazioni a un Governo  di unità nazionale, sul terreno si manifestano segni di evidente logoramento. Diversi sono i casi di tregue locali, ma in una grande instabilità. Gli scontri hanno compromesso o danneggiato quasi tutti i porti e gli aeroporti. Le alleanze si capovolgono facilmente come quella tra Zintane e Sobrata, durante la rivolta contro Gheddafi, diventata ostilità, e poi ancora tregua. Vi sono veti reciproci, delegittimazioni, indisponibilità ad accettare il dialogo proposto dalle Nazioni Unite. La presenza dell’Isis tende a essere sottaciuta dagli interlocutori libici. Ma induce alcuni a maggior ragionevolezza.

 

La ripresa di un “percorso costituzionale” può solo poggiare su un’agenda condivisa tra i paesi Arabi ,e tra gli europei, anziché sui giochi di influenza. Il nostro paese viene sollecitato da tempo, dagli Usa e da alcuni partners europei, a esercitare una “leadership” negoziale . Non lo sta facendo.

 

Si tratta di fare emergere, dalla attuale situazione di blocco, una figura di alto livello e significato per tutte le diverse componenti religiose, politiche e tribali del paese, che possa garantire quel percorso che deve necessariamente partire dalla  stessa realtà libica.

 

  1. Migrazioni.

 

Di emergenza immigrazione  si è discusso all’infinito in questi mesi: per la completa assenza di una politica e di una strategia nazionale ed europea; per una “emergenza” che non  è onesto definire come tale dato che il fenomeno era previsto con certezza matematica da almeno due anni; per il fatto che da una parte si sottolineano  le priorità umanitarie  del salvataggio in mare, e dell’accoglienza di tutti i migranti in Italia; mentre si stigmatizzano dall’altro gli enormi problemi  sociali, economici, di bilancio, di sicurezza, di illegalità diffusa e di tutela dell’ordine pubblico che un “buonismo senza se e senza ma” pone al nostro Paese.

Parlando di questi temi durante una mia recente visita negli Usa, Paese dove l’immigrazione è pure al centro del dibattito politico, mi è capitato di constatare l’assenza nel confronto politico italiano, o per lo meno la sottovalutazione, di aspetti  che invece sono fondamentali per gli americani, oltre che per altri Paesi.

 

Affrontare l’emergenza immigrazione significa anzitutto adottare politiche risolutive nei confronti del traffico di esseri umani. In ordine d’importanza, si tratta della seconda maggiore attività per il crimine organizzato transnazionale, seconda solo al traffico di droga e persino più redditizia del commercio di armi.

Nonostante le considerazioni emotive ed etiche non possano valere meno per le vittime del traffico di droga e di armi, il traffico clandestino di esseri umani tocca in questa epoca molte coscienza più di ogni altro fenomeno criminoso.

 

La ricerca di soluzioni non può tuttavia essere “isolata”. I trafficanti, come spiega un’importante ricerca appena pubblicata dalla Columbia University, considerano i migranti clandestini come “merce” (“commodities”), trasportata attraverso le stesse “autostrade”, finanziata attraverso gli stessi circuiti, protetta e sfruttata dalle medesime mafie che muovono a livello globale droga, armi, petrolio, prodotti contraffatti. I network sono “ibridi”, collegano crimine organizzato, attività finanziarie e terrorismo. La valutazione della minaccia deve collegare queste contiguità e sovrapposizioni.

La prassi internazionale distingue le fattispecie criminose che caratterizzano l’immigrazione clandestina in base a tre criteri: consenso; sfruttamento; trasporto. Si tende così a differenziare il reato di “contrabbando” dal reato di “traffico”. Nel *contrabbando* il migrante si accorda e paga un prezzo per il proprio trasporto. Nel *traffico* il migrante diviene vittima di un sistema di sfruttamento nel quale il trasferimento oltrefrontiera non è che la primissima fase.

 

Nelle analisi fatte dalle Agenzie dell’Onu e da istituzioni indipendenti come la Columbia University, si rileva come il semplice “contrabbando”- pur sempre reato contro la sovranità e la sicurezza dello Stato – stia diventando sempre più marginale rispetto al crimine di “traffico di esseri umani “, nel quale si sommano pesantissime violazioni dei diritti della persona e delle sue libertà fondamentali. Il “contrabbando” diventa sempre più spesso “traffico” per i meccanismi che sistematicamente si innescano:

 

1)   per pagare debiti contratti con i trafficanti, fatti lievitare artificiosamente durante e dopo il viaggio;

2)   per il collegamento con organizzazioni dedite al traffico di droga che soprattutto in Africa Occidentale e in America Centrale operano in simbiosi con l’immigrazione illegale, utilizzandone le rimesse derivanti dallo sfruttamento dei lavoratori clandestini e della prostituzione,  per riciclaggio di denaro;

3)   per alimentare i “network” del terrorismo, attraverso la radicalizzazione di intere comunità di migranti. Ciò è avvenuto da tempo in America Latina e in Africa Occidentale con l’emigrazione di sciti libanesi che hanno rafforzato la presenza Hezbollah in quelle regioni. Sta avvenendo con l’immigrazione clandestina dal Corno d’Africa, dal Sahel e dalla Libia verso l’Europa.

 

Il contrasto a queste diffuse e multiformi minacce alla nostra sicurezza e alla legalità deve perciò riguardare ambiti che vanno aldilà dell’immigrazione illegale. Questo reato deve essere sanzionato e combattuto su tutto il fronte delle conseguenze che esso comporta. Risulta così  incomprensibile che ci si voglia eliminare il “reato” di immigrazione clandestina, sempre meno separabile da quello di “traffico di esseri umani”.

 

Le misure di interdizione devono collegare agenzie, programmi, collaborazioni internazionali, per aggredire networks,  flussi finanziari, e l’intera pluralità di soggetti coinvolti nei traffici di migranti, sempre più interdipendenti con le organizzazioni criminali della droga, del terrorismo, della prostituzione e dell’economia sommersa. Basti questo per dare la misura della grave inadeguatezza nelle politiche sull’immigrazione di questo Governo.

©2024 Giulio Terzi

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