San Donà di Piave, 6 Aprile 2017
Negli ultimi venti giorni quattro incontri -Trump/Merkel,G20 a Baden Baden, Tillerson/ Xi Jinping a Pechino , e Trump/Xi a Mar a Lago–hanno impegnato Americani, Europei e Cinesi. Le immagini e le dichiarazioni di quelle giornate sono apparse talmente eloquenti da bastare forse da sole a spazzare via molte illusioni su “formule magiche” che diversi allenatori in panchina propongono affinchè gli Stati membri dell’UE risolvano in un colpo solo i problemi politici, economici, sociali e di sicurezza aggravatisi nel decennio post Lehman Brothers.
Da un lato c’è il “fronte sovranista”, un’area con diverse “sfumature di grigio” o “ sfumature di verde” ma abbastanza coesa nell’individuare i mali da estirpare: eccessiva “sovranazionalità” dell’Unione; stagnazione economica determinata dall’euro; strapotere della finanza globale con una concentrazione di ricchezza e influenza politica che svuota la sovranità popolare; asservimento alle politiche imposte dalla Germania. Le soluzioni proposte vanno dall’uscita dall’Euro, attraverso negoziati e gradualità condivise, con decisioni se necessario unilaterali e sorrette dai referendum, sino alla sostituzione dell’attuale Unione con una Confederazione di “nazioni “o di “Stati nazionali”.
Alcuni di questi orientamenti, che sono culturali prima ancora che politici, incoraggerebbero la creazione di Confederazioni tra “nazioni” anziché tra “Stati”. Il che si tradurrebbe nella frammentazione di non pochi Stati europei secondo pulsioni autonomiste e separatiste in atto da tempo. Si tratta di un’impostazione che collide con quella vigorosa affermazione dell’identità e della sovranità dello Stato nazionale francese, portata avanti da chi – come Marine Le Pen- insiste per una Confederazione europea, un ritorno al Franco, l’uscita della Francia dall’UE, dall’Eurozona e dalla Alleanza Atlantica. All’interno del fronte sovranista convivono quindi obiettivi politicamente e culturalmente differenziati, tra chi vede all’orizzonte una Confederazione europea di Stati nazionali, e chi trova invece nella dimensione “regionale” – e nei principi dell’autodeterminazione delle minoranze nazionali – la chiave per un nuovo modello di Confederazione europea.
Sul versante opposto, anche qui con diversi “distinguo”, vi è l’area delle “ sfumature di azzurro”, riassunta nei giorni scorsi a un colloquio Jean Monnet a Lisbona dalla Professoressa Maria Grazia Melchionni. Partendo da una analisi delle sfide con le quali l’Europa dovrà sempre più cimentarsi sia per la sua sicurezza sia in ragione di esigenze vitali per la sua economia, l’Unione deve rapidamente riorganizzarsi – in profondità – per andare ben oltre a quanto avvenuto sinora nel processo di integrazione e di allargamento. Questo approccio suggerisce a sua volta un doppio percorso di possibile integrazione: da un lato, quello delle geometrie variabili imperniate su “cooperazioni strutturate e permanenti”; dall’altro, un’integrazione costruita attorno a un nucleo di Paesi interessati a rafforzare, come nel caso dell’Euro gli strumenti comuni: fiscali, di bilancio, di verifica e controllo sulle banche, di mutualizzazione del debito pubblico.
Il ruolo globale di un’Unione basata essenzialmente sul “soft power”, deve assolutamente riqualificarsi attraverso il decisivo rilancio delle sue capacità di difesa , quale “provider” di sicurezza anche e soprattutto sul terreno dell’”hard power”.
Dobbiamo uscire dalla gabbia mentale di continuare ad essere “Venere”, lasciando agli Stati Uniti il ruolo di “Marte”. Comunque evolva il dibattito sulle nuove architetture europee, dobbiamo tutti riconoscere che una Difesa credibile rappresenta per un’Unione integrata politicamente così come per un’Europa “Confederale” lo strumento indispensabile di una politica estera e di sicurezza degna di tale nome: per l’Europa nel suo insieme così come per i singoli Stati che la compongono. Non ci sono altre “formule magiche” per coesistere sulla scena mondiale con i protagonisti: amici e alleati come gli Usa; o antagonisti e ostili nell’anteporre l’uso della forza alla forza del diritto, come avvenuto Russia e Cina – potenze globali con le quali dobbiamo ricostruire le giuste regole della sicurezza cooperativa – e Iran, Nord-Corea: potenze regionali con ambizioni globali che contrastano gli interessi di sicurezza degli Europei.
La priorità massima riguarda quindi il ripensamento dell’Unione in termini di Difesa e di sicurezza. Siccome le decisioni che riguardano la vita dei cittadini, la protezione del territorio, le frontiere sono eminentemente politiche , non è immaginabile che una democrazia liberale elabori uno strumento di Difesa comune – con comandi e capacità convenzionali e nucleari integrate – senza una comune politica estera e di sicurezza.
Si tratta di un’esigenza che supera persino le contingenze della Brexit. Subito dopo l’incontro Merkel- Trump il Ministro della Difesa britannico ha annunciato che insieme al collega tedesco, sta lavorando a una documento di “visione congiunta ” per future cooperazioni Nato e bilaterali. Lo scarso calore dell’Amministrazione Trump nei confronti della Nato e dell’Unione Europea emerso nell’incontro con Angela Merkel e purtroppo confermato dalla notizia che Tillerson non parteciperebbe alla sua prima sessione ministeriale Nato a Bruxelles per concomitanti impegni con Russi e Cinesi, crea i primi effetti aggregativi. Il rilancio della Difesa Europea sembra ora più sincero; più concreto rispetto all’incuria per impegni assunti da ben cinque anni, di portare il contributo nazionale alla Nato ad almeno il 2% del PIL. La posta in gioco non è solo – e già questa è una responsabilità precisa del Governo Gentiloni che non sta aumentando in nessun modo significativo il bilancio militare – quella di assicurare una Difesa credibile per il Paese. Si tratta ugualmente di garantire che le imprese italiane possano prendere posto da protagonisti, anziché da paria, ai tavoli europei ai quali si elaborano progetti di armamento, ricerche e innovazioni. Germania, Regno Unito e Francia hanno iniziato a aumentare i loro stanziamenti, dal triplo al quadruplo dei nostri. Le tiepidezze americane verso l’Alleanza Atlantica sono superabili, come sottolinea il Presidente Trump ogni volta che pronuncia la parola “NATO”, solo a condizione che tutti facciano ciò che stanno facendo i nostri principali partner. Ma l’Italia non lo sta facendo.
Gli incontri da fine Marzo a oggi negli Usa, in Germania e in Cina hanno chiarito la rotta che la Casa Bianca intende mantenere, sia pure con i sensazionalismi e le contradditorietà di questa stagione politica.
In parallelo, la decisione finalmente ratificata dal Parlamento britannico di attivare l’Art.50 per la Brexit, e le vicende che in questi sei mesi l’anno preceduta, meritano di essere studiate assai attentamente da quanti prefigurano un effetto marcatamente positivo sull’economia italiana nel caso di un’uscita dall’Euro.
Per la verità non è mai stata elaborata una vera e propria strategia per una c.d. Italexit che tenga conto del quadro politico ed economico nel quale l’Italia si troverebbe con la Frexit voluta da Marine Le Pen. Si tratterebbe di individuare il percorso negoziale e normativo per tornare alla Lira, assicurando:
*A) la sostenibilità del nostro ingente debito pubblico;
*B) l’accesso delle nostre imprese al Mercato Unico europeo, dove si indirizza più della metà del nostro export, e ai mercati extraeuropei, in presenza di un evidente rischio che ipotizzate svalutazioni competitive generino guerre commerciali o in ogni caso incoraggino misure protezioniste dei partners commerciali nei nostri confronti.
*Sulla sostenibilità del nostro debito pubblico si deve, riflettere alla credibilità che avrebbe un’Italia uscita dai controlli e dalle restrizioni imposti da Bruxelles , Francoforte, Basilea e Washington – sedi della “governance” finanziaria multilaterale”- nell’attuare una politica economica marcatamente “sovrana” e al tempo stesso responsabile nell’onorare gli impegni assunti dal Paese . Sotto il profilo del rimborso dei debiti, della garanzia sugli investimenti esteri, della applicazione di tariffe doganali e fiscalità in linea con gli accordi sottoscritti, del funzionamento della giustizia civile- il primo, con burocrazia e corruzione, dei rompicapi per le aziende straniere in Italia- un’Italia con le mani molto più libere sarebbe più o meno credibile per i nostri principali partner? Dobbiamo stare molto attenti alla risposta, e a come la possiamo documentare. Se rispondiamo positivamente dobbiamo essere capaci di dimostrare che un’Italia “sovrana” sarà capace di ridurre drasticamente le metastasi della corruzione.
L’Euro ha funzionato nettamente meglio per i paesi dell’Eurozona che sono meno colpiti dalla corruzione e che, essendo più “virtuosi” di noi nella gestione della cosa pubblica, hanno debiti di almeno trenta punti percentuali sotto il livello italiano, con tendenza al ribasso. La corruzione affossa l’economia dell’Italia probabilmente più di ogni altra cosa. Esiste una evidente correlazione tra debito – PIL e “indice della corruzione”. Dei diciannove Paesi dell’Eurozona sono ben quindici quelli che confermano la saldatura tra un debito inferiore al 100% di PIL e un” corruption perception index- CPI” migliore di quello calcolato per l’Italia. Per il “nocciolo duro “ dell’Eurozona, che dovrebbe alla fine trasferire risorse di bilancio ai meno virtuosi in caso di mutualizzazione dei debiti, e di garanzie sui depositi bancari, la saldatura tra basso debito e basso indice di corruzione è particolarmente evidente: mentre Italia e Grecia sono rispettivamente al 47° e 44° posto nell’“indice di corruzione-CPI”, con debiti del 133% e del 196%, Finlandia, Germania, Austria, Lussemburgo, Estonia, Paesi Bassi sono tra il 23° e il 2° posto di CPI, e almeno 50 punti al disotto del debito italiano.
Sull’accesso delle nostre imprese ai mercati esteri, vale la pena sottolineare come l’Italia si trovi tra i Paesi con un interesse nazionale più evidente a tenere aperti in ogni misura possibile – sia pure nel quadro di un sostegno attivo al “made in Italy”- gli scambi commerciali a livello globale e a contrastare il protezionismo. Il “grado di apertura” della nostra economia – import più export in rapporto al PIL- è attorno al 50%. Tra i Paesi Ocse siamo nella fascia alta dell’internazionalizzazione, leggermente al disopra della Francia, molto al disopra del 22% Usa e meno, ovviamente, della Germania. Il nostro attivo commerciale è di circa 60 miliardi di dollari, un quinto nei confronti degli Usa; quello tedesco di 100 miliardi. L’80% degli investimenti esteri negli Usa, ha dichiarato l’Alto Rappresentante Mogherini durante la visita a Washington, proviene dall’Europa.
Sono pochi dati essenziali che danno ulteriore prova di quanto sia vitale per l’Europa e per l’Italia assicurare che le regole del commercio internazionale continuino a funzionare, con l’obiettivo di contrastare il risorgere di pratiche protezioniste, di svalutazioni competitive, di barriere tariffarie generalizzate e, alla fine, di guerre commerciali.
Trump ha detto alla Merkel di non essere “isolazionista”, né contro l’”international trade”; bensì di volere un “fair trade”. Per alcuni suoi ministri il “fair trade” deve riequilibrare il deficit commerciale dell’America nel suo insieme e nei confronti di ogni singolo partner. Sono allo studio misure fiscali, finanziarie, di “moral suasion” destinate a riportare negli Usa investimenti e occupazione che erano stati delocalizzati. E’ su questo sfondo che il Segretario al tesoro Mnuchin si è battuto al G20 finanziario per impedire che il comunicato conclusivo dei lavori ribadisse l’impegno di tutti i Paesi partecipanti a contrastare il protezionismo: politica costantemente seguita da Washington sin dai primi anni del dopoguerra e alla base della creazione del GATT, del WTO e della serie di accordi che hanno determinato la crescita, l’innovazione e lo sviluppo. Analoghe chiusure sono venute da parte americana sui seguiti alla Conferenza –COP21- sul clima del dicembre 2015.
Tutto questo sta producendo inaspettati riallineamenti su una scena globale che vede una Cina molto più interessata di quanto non fosse anche soli pochi anni fa alla liberalizzazione degli scambi- soprattutto verso l’estero, e assai meno dall’estero- e alla lotta contro cambiamenti climatici. Sicuramente commercio internazionale e clima rappresentano due priorità altissime per gli Europei; delle priorità da sostenere con determinazione e in modo unitario nei confronti di Washington.
Sia che si voglia restare nell’Euro rafforzando l’integrazione Economica e Monetaria con un salto verso l’integrazione politica, o che si voglia riformare il sistema con un suo allentamento e con misure di fluttuazione concordata tra le monete nazionali che sostituirebbero l’Euro, vi sono pertanto delle condizioni minime nelle competenze dell’Unione che non possono essere disattese.
Le necessità immediate riguardano:
A) la Difesa comune;
B) lo Stato di diritto e la legalità nell’Unione e nei rapporti esterni.
*Difesa. Italia, Francia e Germania, con il concorso di altri paesi dell’Eurozona devono ridare con decisione una nuova propulsione ad un processo che sarà necessariamente di integrazione differenziata. Sul piano giuridico non c’è bisogno di inventare nulla: il Trattato offre già gli strumenti adeguati. Nelle ultime settimane i Ministri della Difesa hanno deciso, con il consenso britannico, la creazione di un Quartier Generale di Comando per missioni comuni e addestramento, sempre a condizione che non vi siano duplicazioni con l’Alleanza Atlantica.
Si tratta di tentativi che, pur replicando esperienze non riuscite in passato, si situano in una dinamica nuova: a causa delle incertezze che si notano a Washington e che certo non rassicurano gli alleati europei sulla incondizionata “copertura” , sia convenzionale che nucleare, che il Trattato di Washington garantisce ai sensi del suo art.5. Si è persino aperto un dibattito sulla deterrenza nucleare e sulla possibilità che gli europei possano dotarsi di un loro autonomo sistema di difesa nucleare attraverso un’estensione a tutti i 27 Paesi che resteranno nell’Unione dopo la Brexit dell’eventuale utilizzo della “force de frappe” francese. Certamente si tratta di un pensiero ardito, con implicazioni di ampia portata. Ma il fatto che se ne parli dimostra il clima di insicurezza che si avverte.
Un altro ambito sinora poco esplorato che presenta opportunità particolarmente rilevanti riguarda la “ quinta dimensione “della sicurezza e della Difesa: quella cibernetica. La Direttiva “Network Information Security-NIS” è stata adottata il 6 Luglio 2016 dal Parlamento Europeo .Essa si colloca all’interno di una strategia europea che mira a rafforzare la cybersecurity e la resilienza informatica dell’Unione Europea e muove dalla considerazione che le reti, i sistemi e i servizi informativi svolgono un ruolo vitale nella società e, pertanto, è essenziale che essi siano affidabili e sicuri per le attività economiche e sociali, in particolare ai fini del funzionamento del mercato interno. Per fornire una risposta efficace alle sfide in materia di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi, si deciso un approccio comune dei 28, con capacità e norme comuni in materia di pianificazione, scambio di informazioni, cooperazione e obblighi di sicurezza per gli operatori di servizi essenziali e i fornitori di servizi digitali.
La Direttiva NIS è entrata in vigore nell’Agosto del 2016. Gli Stati hanno tempo sino al 9 maggio 2018 per trasporla – attraverso la normativa nazionale – nei rispettivi ordinamenti e altri 6 mesi per identificare gli “operatori dei servizi essenziali”. Se la dimensione cyber è già divenuta prevalente nei sistemi di Difesa -anche come parte delle strategie di deterrenza, e di potenziale risposta- l’ottimo lavoro realizzato per la standardizzazione e l’obbligatorietà di comuni capacità e strumenti, può essere vista sin da ora come la fase più promettente e dinamica di una comune Difesa Europea.
* Stato di diritto e legalità. La sfida dello Stato di Diritto e della legalità condensa tutte le altre. Nel prefigurare i diversi scenari aperti dalla Brexit e da altre possibili, parziali o radicali Exit, appare estremamente importante cogliere il comune patrimonio di valori, essenziale per ogni europeo. Lo Stato di Diritto è diventato il vero principio costituente, giuridico e politico di tutti gli Stati e popoli dell’Unione. L’art. 2 TUE contiene il richiamo più evidente e ha caratterizzato a tal punto l’evoluzione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri da essere definito un “valore fondante” anziché” un mero “principio” come nei Trattati precedenti. Il concetto di “tradizioni costituzionali comuni” è richiamato nei Trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Esso viene ulteriormente evocato all’art.6, par.3,TUE laddove si stabilisce che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU e “ risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Questi ultimi costituiscono una fonte specifica del diritto UE sviluppatasi anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e in quell’attività definita come “judicial constitutionalization “ del diritto dell’Unione, prima ancora di entrare a far parte dei Trattati.
Si può quindi perfettamente affermare che lo Stato di Diritto è il “principio dei principi”, in una sovraordinazione simile a quella che in altri tempi veniva definita la “Grundnorm” di ogni sistema giuridico. Essa implica a sua volta il rispetto dei principi di legalità, certezza del diritto, divieto di arbitrarietà del potere esecutivo, indipendenza e imparzialità del giudice, controllo giurisdizionale effettivo, uguaglianza davanti alla legge.
Lo Stato di Diritto deve caratterizzare gli obiettivi della politica estera , gli strumenti, le risorse, la formazione, la mentalità stessa della diplomazia europea. La sua promozione interagisce con la protezione dei Diritti Umani. Nessun altro campo del Diritto, ha scritto Tom Bingham, ha un così evidente fondamento morale: il pensiero che ogni essere umano, semplicemente in virtù del proprio esistere, è titolare di alcuni essenziali, e in certi casi incondizionabili, diritti e libertà. Per questi motivi lo Stato di Diritto , con tutte le sue implicazioni, resta l’essenziale garanzia, il più valido impegno e la fiducia meglio riposta nell’Europa di domani.