Napoli, 24 Gennaio 2015
È per me un grande onore poter parlare oggi di un tema estremamente attuale per il nostro Paese in questo inizio 2015: una politica estera nell’interesse degli italiani e dell’identità nazionale.
E’ importante parlarne qui a Napoli: città che per tradizione, potenzialità economica è vera capitale Mediterranea. Le sue Università, i Centri di Studi, le personalità che ne animano e ne improntano il pensiero sono un’eccellenza in tutta Europa, ricordiamo tra molti esempi, il formidabile contributo di giuristi napoletani, come Gaetano Filangieri, alla definizione e alla propagazione nel mondo del pensiero illuminista italiano sul quale si sono consolidati i valori dello Stato di Diritto.
Durante le celebrazioni del 150° Anniversario dell’Unità d’Italia in America, ho potuto dare evidenza ai rapporti, subito dopo la Rivoluzione americana tra Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, uno dei principali artefici della Costituzione degli Stati Uniti.
Filangeri ebbe influenza significativa sul processo costituzionale fra le tredici ex colonie britanniche. Prima di lui un altro italiano, Filippo Mazzei, intellettuale e al tempo stesso uomo d’azione, conoscitore del Medio Oriente, aveva intessuto una stretta collaborazione con Thomas Jefferson. Il Presidente Kennedy ha scritto nel suo libro “A nation of immigrants” che si deve riconoscere l’influenza di Mazzei sull’enunciazione del principio di più fondamentale rilievo della Dichiarazione dell’Indipendenza Americana: “We hold these truths bo be self evident, THAT ALL MEN ARE CREATED EQUAL”.
Se siamo consapevoli, con Fernand Braudel, Paul Valery, David Abulafia che è radicata sulle rive del Mediterraneo una comune cultura mediterranea; che questa identità si basa sulla tolleranza, così come sul dialogo e sulla coesistenza di fedi diverse allora l’apporto culturale di Napoli alla politica estera italiana ed europea acquista una sua speciale luminosità. Solo la rinnovata fiducia nella Civiltà euromediterranea e atlantica, e quindi nell’Occidente, possono dare un’alternativa a Comunità immigrate dove da tempo si diffondono rifiuto e radicalismo. Ma per ridiventare credibile la nostra democrazia deve tornare ad essere un vero Stato di Diritto; deve debellare una corruzione che situa l’Italia in fondo al convoglio europeo; deve estirpare un malaffare criminoso che condiziona persino la nostra politica estera e di sicurezza; deve affermare una libertà di informazione troppo sottomessa ad alcuni poteri forti.
La costruzione europea, che dalla cultura del Mediterraneo ha tratto alimento, ha mostrato i limiti di un’architettura sbilanciata sulla governance economica/ finanziaria, rispetto ad una integrazione politica con saldi ancora oggi valoriali.
Il fondamento della tradizione giudaico cristiana è stato gravemente ignorato nel percorso costituzionale europeo. E’ rimasto così in ombra uno dei principali fattori aggreganti per l’identità dell’Unione.
Anche per questo motivo il “soft power” europeo non è stato adeguatamente sorretto dalla volontà politica e gli accordi sulla sicurezza continentale hanno mostrato tutta la loro fragilità dalla crisi georgiana del 2008 in poi.
Per l’Italia si sono accentuate alcune criticità strutturali.
a) In primo luogo, l’illusione che politica estera e di Difesa possa “snazionalizzarsi” per essere rimpiazzate da una politica europea comune, e una Difesa europea integrata.
Un “approccio fideistico” che ci fa apparire un pò come la Fortezza Bastiani, avamposto di un’Europa che non c’è. Per immigrazione, energia, sicurezza, Difesa ci ostiniamo a credere che le soluzioni competano prioritariamente all’Europa, anche quando si tratta di responsabilità che restano anzitutto nazionali. Significativo il caso Marò. Vorremmo che lo risolvesse l’Europa, quando l’Italia non si perita neppure di aprire una procedura arbitrale con l’India.
Nella politica estera e di Difesa l’Europa si dimostra ancora, politicamente, un nano. Esiste, è vero, il famoso numero di telefono, invocato da Kissinger: quello dell’Alto Rappresentante. Ma nonostante le grandi aspettative sorte con il Trattato di Lisbona e la creazione di un’imponente rete di Ambasciate europee nel mondo, l’impatto dell’Unione sulla diplomazia globale rimane sottodimensionato rispetto alla potenzialità e agli interessi dell’UE.
Invochiamo dall’Europa politiche migratorie alle quali il nostro Paese non si è mai veramente preparato. Riduciamo risorse per Difesa e sicurezza, confidando nell’Unione. Sopprimiamo Ambasciate e Consolati fingendo di credere che alcune delle loro funzioni saranno svolte dal Servizio Europeo per l’Azione Esterna; sapendo bene che non è cosi.
Nella sua prima intervista a Bruxelles, Federica Mogherini abbia dichiarato che la politica estera rimarrà una prerogativa nazionale dei singoli Stati membri, nonostante il suo nuovo ruolo potesse farle dire il contrario!
b) La seconda causa di indebolimento della nostra politica estera riguarda la frammentazione dei centri decisionali duplicando, sovrapponendo, confondendo ruoli e iniziative che competono essenzialmente alla Farnesina.
c) La terza criticità, concerne la diminuzione impressionante di risorse finanziarie e umane. Nonostante la grande passione e il talento di molti uomini e donne della diplomazia italiana, la caduta verticale delle risorse non può che provocare scadimento dei servizi e delle capacità manageriali. Negli ultimi sei anni il Bilancio del MAE si è piu’ che dimezzato, diventando una mera frazione di quello dei nostri principali partners.
d) Vi è infine un problema di leadership: 6 diversi Ministri degli Esteri si sono succeduti negli ultimi tre anni e mezzo, contro tre Ministri nel decennio precedente.
Non deve quindi sorprendere se punti cardinali della nostra politica estera risultano appannati. Intendiamoci, ci sono voluti sforzi enormi-in ben altre stagioni – da parte di statisti come De Gasperi, Einaudi, Sforza, per orientare il Paese verso una salda collocazione Atlantica ed Europea.
Ci sono volute condizioni favorevoli, come il Piano Marshall e le elezioni politiche del 1948 per confermarla. Le due direttrici fondamentali hanno ben resistito nei decenni; si sono consolidate negli anni ’70 persino con i governi di solidarietà nazionale sostenuti dal PCI: hanno tenuto negli anni ’90 dopo il crollo del Muro di Berlino, nel quale molti osservatori vedevano invece dissolversi le ragioni esistenziali della stessa Alleanza Atlantica. E mi sembra oggi preoccupante che le voci in sostegno della nostra collocazione Occidentale siano timide proprio nel contesto socio culturale ne ha sempre in passato, affermato i valori.
La “crisi dell’Europa” coinvolge ineluttabilmente l’intero Occidente?
1. Nel Settembre 1948 l’Ambasciatore Quaroni scriveva al Presidente Einaudi un rapporto, che vale per la diplomazia italiana, quanto il “Long Telegram” di John Kennan vale per la diplomazia statunitense.
Quaroni era preoccupato dalla possibilità di un conflitto tra USA e URSS e dall’esigenza di schierarsi in una “lotta di ideologie” tra opposte concezioni della società.
Gli USA – diceva Quaroni – rappresentano la visione occidentale che, con tutti i suoi difetti, è pur sempre basata sul rispetto dei valori umani; la Russia rappresenta il totalitarismo comunista, che sotto il manto di ideali in sé bellissimi, nasconde uno spietato regime di conformismo poliziesco… ogni italiano che realmente crede ai valori della civiltà occidentale si deve rendere conto che se vuole mantenerli deve essere pronto a difenderli… questa difesa non è possibile sul solo piano nazionale e la stessa Europa occidentale, unita a questo scopo, non basta.
Dopo quasi settant’anni, queste parole restano profetiche. Enunciano una politica estera pragmatica e al contempo imperniata su elementi valoriali. Non soltanto la crisi Ucraina ha riaperto un dibattito tra Occidente ed Eurasia che sembrava sepolto. Non soltanto un quarto di secolo dopo la scomparsa dell’URSS gli assertori della Novorossija imperiale contrappongono ancora il “modello di valori euroasiatici” ai “valori occidentali”. In aggiunta a tutto questo si pone ora la grande questione del rapporto con un Islam attraversato da rapidissime mutazioni.
Nell’affrontare le cause dell’instabilità in Europa, in Medio Oriente, nel Mediterraneo, in Africa, gli europei avvertono le loro pesanti responsabilità. Al tempo stesso, l’America mantiene una posizione del tutto speciale: a volte criticata per essere arrogante e prepotente; altre volte – e con uguale enfasi – criticata per non essere sufficientemente determinata nella sua leadership, come avvenuto in Libia, in Iraq, in Siria.
2. Il 7 gennaio 2015 a Parigi, dieci anni dopo gli attentati di Madrid e di Londra, la “sicurezza interna” all’Europa ha mostrato una sua estrema fragilità.
È prepotentemente tornato alla ribalta l’incubo del fondamentalismo e della radicalizzazione di componenti marginali, ma non per questo meno pericolose tra gli almeno venti milioni di musulmani residenti in Europa.
Ancor più che nel decennio precedente, la concatenazione delle crisi che avvolgono il sud del Mediterraneo, dal Sahel alla Nigeria, al Corno d’Africa, dalla Libia alla Siria, dall’Iraq, allo Yemen e al Pakistan, si salda nella miriade di sigle Jihadiste con “lupi solitari”, “foreign fighters”, “cellule dormienti” o “attive” in tutta Europa.
Il denominatore comune è l’attacco ai valori dell’Occidente, alla laicità, alla parità tra uomo e donna, alla libertà religiosa. L’estremismo islamico attacca con crescente virulenza l’identità dell’Occidente proprio nel momento in cui tale identità viene ad essere percepita da noi europei con esitazioni e riserve.
Nel colpire Charlie Hebdo, il terrorismo islamico ha voluto trafiggere un valore fondamentale per le nostre società e per lo Stato di Diritto: la libertà di informazione e di espressione.
Parigi è l’anello di una lunga catena di attentati e massacri che hanno colpito Tolosa, Bruxelles, Londra, Madrid, in Europa, a Sidney e a Ottawa, città e villaggi in Africa e in Medio-Oriente, con decine di migliaia di vittime. Una violenza estrema, a ondate crescenti. L’antisemitismo e la cristianofobia ne sono il magnete costante. L’antisemitismo nelle Comunità Mussulmane in Francia è il triplo della percentuale, peraltro già elevata, esistente nel pubblico francese.
Il fondamentalismo jihaidista è consapevole di una identità occidentale e giudaico-cristiana trascurata da noi stessi; un’identità stanca come le nostre Istituzioni, logorata dalla corruzione, dal malaffare e dall’opportunismo.
In altre stagioni l’Occidente era stato un riferimento positivo, traente nel pensiero del “primo risveglio arabo”. E’ nostro compito che ritorni ad esserlo anche per l’Islam europeo.
3. Sino alla recessione apertasi nel 2008/09 l’obiettivo federalista e l’idea di un’ “Europa sempre più coesa” aveva grande seguito nell’opinione pubblica italiana. Nelle statistiche di Eurobarometro eravamo tra i primi della classe.
Dopo sei anni di crisi, si sono modificati molti convincimenti. L’euroscetticismo tocca ora anche partiti che avevano militato sull’altro versante. Si smorzano gli entusiasmi nei mondi “politically correct” della cultura e della diplomazia, quei mondi che avevano voluto così fortemente l’Euro, che si erano fatti paladini di sempre maggiori trasferimenti di sovranità in campo economico, finanziario, politico e di sicurezza.
I Governi italiani succedutisi dal 1985, quando fu sottoscritto l’Atto Unico Europeo, hanno insistito per spostare competenze e poteri verso le Istituzioni comuni, Parlamento e Commissione: hanno auspicato la creazione di veri Ministri dell’Unione per gli Affari esteri, la Difesa, l’Economia. Hanno cercato, nelle istanze intergovernative come i Consigli Europei, di allargare le aree del voto a maggioranza rispetto alle decisioni per consenso che tutelano meglio la sovranità dei singoli paesi.
Nonostante un quadro così mutato, una sorta di inerzia continua a guidare la politica europea e estera del nostro Paese verso “un’Europa sempre più coesa” e un’integrazione sovranazionale? Qual’è la visione strategica che l’Italia ha dell’Europa? Se questo modello di Unione ha dato prove deludenti; se la governance economico-finanziaria è pesantemente sbilanciata a sfavore di Paesi come il nostro; se la solidarietà -fondamento della costruzione europea- si infrange nella “rinazionalizzazione” di politiche migratorie o finanziarie, mentre si comunitarizzano settori che avvantaggiano solo i Paesi forti; se non decolla ancora, dopo sforzi durati un quarto di secolo una incisiva politica estera, di sicurezza e di difesa, quali sono le “mutazioni sistemiche” che auspichiamo per l’Unione Europea?
Può l’Italia restare convinta che sia interesse nazionale un’ “Europa sempre più coesa”, e infine Federale? O non esistono altre strade affinché l’Unione assurga al rango di Potenza mondiale? Come rimettere in campo un’identità europea più inclusiva della dimensione mediterranea?
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Il 2015 coincide con un profondo riassetto degli equilibri globali. L’Italia e l’Europa devono coglierne le opportunità. L’America è tornata protagonista. La Russia è entrata in una crisi economica che mina la sua influenza regionale e le prospettive di un’Unione Euroasiatica. La Cina avverte i vantaggi che un atteggiamento responsabile può dare nelle grandi questioni globali (clima, commercio, moneta) e regionali (Hong Kong, Mar della Cina, Corea del Nord). La previsione che Obama termini l’ultimo biennio della sua Presidenza da “anatra zoppa” (lame duck) appare al momento smentita, e i termini dell’equazione mondiale stanno rapidamente cambiando.
Nel 2014, la Presidenza Obama si era trovata in difficoltà nel rispondere ad un irruente Presidente russo assurto a simbolo – persino in Occidente – di volontà nazionale.
La debolezza americana sembrava dare opportunità mai viste al rilancio della Novorossija, la Russia imperiale, predominio Scita in Medio Oriente e nel Golfo, al logoramento di posizioni occidentali in Africa, Asia, America Latina.
La sorprendente espansione dello Stato Islamico in Siria e in Iraq e il diffondersi dell’influenza iraniana in quei due Paesi e nel Golfo, il vano inseguimento di un compromesso sulla questione nucleare iraniana, lo stallo israelo-palestinese, l’assertività cinese nel rivendicare zone contese nel Pacifico, avevano motivato critiche sempre più dure nei confronti dell’Amministrazione USA.
La pubblicazione del rapporto sugli interrogatori-tortura della CIA sembrava mettere l’Amministrazione in ancor più difficoltà, non essendo neanche riassorbito il danno prodotto dalle rivelazioni di Snowden circa l’utilizzo dei “metadati”.
Nel giro di poche settimane la sconfitta elettorale subita dall’Amministrazione democratica ha invece prodotto uno “shock reattivo”, una sorta di “Big Bang” politico. Ma non per miracolo. Ci sono voluti diciotto mesi di trattative segrete con Cuba, un lungo negoziato con la Cina sul clima, una ripresa economica “costruita” per almeno un triennio, una “geopolitica” dell’energia che ha ridimensionato i condizionamenti di Russia e Opec. Obama ha così avuto, ha commentato un editorialista, una “iniezione di testosterone”, mentre a Putin viene ora consigliato di “rimettersi la camicia e di coprire i muscoli”.
Ci sono dunque alcuni “fondamentali” da tenere ben presenti per il 2015:
1) la ritrovata vitalità dell’economia americana con una crescita e una creazione di posti di lavoro senza precedenti da decenni.
2) La diplomazia americana riacquista una certa coerenza attorno a obiettivi di fondo enunciati sei anni fa ma poi “evaporati” per strada, nonostante le ambiguità che continua a mostrare in Siria e in Iraq. L’accordo Usa-Cina crea di fatto un “bipolarismo” sul clima che non richiede di essere formale per essere efficace. L’UE ne è importante comprimario.
Su libertà, diritti umani e Stato di Diritto è da notare che pubblicando il rapporto sugli interrogatori Cia, Washington ha avuto coraggio e ha anteposto la Verità. Nel caso Sony ha reagito immediatamente alla “censura” nordcoreana, chiedendo alla Sony di confermare la diffusione del film “The interview”, nonostante le minacce di attacchi cibernetici o di altra natura. Dall’episodio è sembrato anzi maturare un diverso clima tra Pechino e Washington in quella che rappresenta la “dimensione dominante” della sicurezza nel nostro tempo: la cybersecurity. Su tutti questi punti è necessario un ben maggior impegno europeo e italiano. Dobbiamo evitare segnali confusi nei rapporti con l’Iran e la Russia.
3) Il superamento di vecchi steccati ideologici ritorna nell’apertura a Cuba per recuperare il “fronte antagonista” di Alba, guidato da Cuba, Venezuela, Ecuador e Nicaragua: uno sviluppo considerevole anche per noi che vediamo nei rapporti Europa, America Latina una grande opportunità.
4) La Russia di Putin appare un colosso militare dai piedi di argilla per la debolezza della sua economia. L’azzardo del “fatto compiuto” in Crimea e le operazioni militari “coperte” (non più di tanto) in Ucraina orientale avevano dato all’opinione pubblica un’impressione di grande forza. Pochi si sono chiesti quanto solida fosse la base economica di una proiezione di potenza così ambiziosa per un paese il cui PIL è a mala pena quello di una “potenza media”. Le preoccupazioni per la crisi economica russa ci riguardano da vicino, le nostre Banche sono tra le più esposte sul mercato russo, i nostri esportatori stanno soffrendo. L’Italia e l’UE devono far rivivere il partenariato politico con Mosca. Russia, UE e USA devono ricostruire un efficace sistema di sicurezza incentrato su misure di fiducia sull’esclusione soluta dell’uso della forza.
5. La Cina. Per molti versi, il Paese si trova su un percorso opposto a quello della Russia. Con un’economia da 9 trilioni di dollari, rispetto ai 2,1 trilioni per la Russia (e ai 16,5 per gli USA e quasi 17 per l’UE) la Cina registra una crescita sempre sostenuta, anche se rallentata rispetto al 10% del passato decennio. Xi Jinping prosegue una campagna durissima contro la corruzione sino ai più alti livelli dello Stato e del Partito, anche se diverse di queste manovre mirano in primis a un accentramento di poteri mai visto dai tempi di Mao.
Diversi analisti ritengono che diversamente da altri “fronti” come quelli ucraino e mediorientale le controversie territoriali tra Pechino da un lato e Tokio, Hanoi, Manila e Seoul, non dovrebbero aggravarsi, a condizione che non si tensioni “interne” a Pechino. La Cina cerca – saggiamente – stabilità e crescita. Ciò non esclude che voglia competere per guadagnarsi maggiori spazi di influenza e appoggi strategici anche in regioni lontane, non solo in Africa, ma anche in America Latina e nei Caraibi ma la competizione potrebbe restare di matrice politica ed economica, senza travalicare sul piano militare.
6) Il Grande Mediterraneo, è l’arco di crisi che più influisce sul nostro Paese, per sicurezza, approvvigionamenti energetici, flussi migratori, opportunità economiche: si estende dalla Libia alla Siria, dall’Iran al Golfo, a Israele, al Libano. Nelle sue complesse conflittualità predomina quella tra Sunniti e Sciti, e quella tra Israeliani e Palestinesi. È l’ambito nel quale la strategia americana ed europea è apparsa negli ultimi anni più incerta.
Gli USA puntano per il 2015 a un ampio compromesso con l’Iran, a stabilizzare Iraq e Siria, a rilanciare il dialogo Israelo-Palestinese, a consolidare la Libia e il suo contesto regionale, sollecitando una leadership europea e in particolare italiana. Obiettivi estremamente impegnativi con anelli deboli nella politica estera americana ed europea.
Se la politica estera, di sicurezza e di difesa dell’UE non è sinora decollata, molto difficilmente l’Europa sarà in grado di fornire un apporto decisivo in questa regione.
Sono presenti nell’UE, “aggregazioni d’interesse” tra alcuni principali Paesi. Vi è un terzetto di punta, guidato spesso dalla Germania, talvolta da Francia e Gran Bretagna, ma raramente dall’Italia. Così e nata, ed è stata gestita su impulso tedesco e polacco, la questione Ucraina, il Partenariato Orientale, l’operazione franco-britannica in Libia, quella francese in Mali e Centrafrica, così è stato negli ultimi due anni per il rapporto con la Russia. L’Italia viene ormai definita in documenti ufficiali a Bruxelles come “Paese periferico” insieme ad altri Mediterranei.
Dobbiamo rialzare la testa, riprendere l’iniziativa. La Libia rappresenta la nostra priorità immediata. Abbiamo tutte le credenziali per lanciare in Libia una missione di “institution building” europea, su ampia scala, con risorse adeguate, non asfittiche come quelle della missione di “osservatori” dello scorso anno.
Energia e migrazioni riguardano in buona parte la Libia.
E’ altresì interesse italiano, cogliere l’evoluzione dei rapporti di potere globale: è innegabile che si stia consolidando un “inedito bipolarismo”. Le politiche estere si stanno “rinazionalizzando”; le idealità sovrannazionali indebolendo; la globalizzazione si frammenta. Risuona ancora forte il monito dei clintoniani a inizio anni ’90: “it’ the economy, stupid…”. La governance mondiale si polarizza attorno alle maggiori economie: per dimensione ve ne sono tre, l’americana, l’europea e la cinese; per vitalità soltanto due, l’americana e la cinese. Ecco l’emergente realtà bipolare.
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In conclusione, la ritrovata dinamica della politica estera e dell’economia statunitense è un “treno da non perdere”. Una maggiore apertura ad un mercato americano in forte crescita soprattutto nei consumi costituisce un’occasione per il la nostra esportazione agroalimentare, di beni strumentali, di auto, di beni di consumo. Esso coinvolge una miriade di Piccole e Medie Aziende, punto di forza anche della realtà campana. È a loro che è soprattutto rivolto il TTIP, il Trattato di Libero Scambio con gli USA, come prescritto dal mandato fornito dal Parlamento Europeo alla Commissione che salvaguarda i nostri standards di sicurezza sanitaria e agroalimentare.
È quindi interesse dell’Italia:
A) consolidare il ruolo dell’Occidente nella sua affermazione di valori e nella soluzione di crisi che ci toccano direttamente. Dobbiamo risolvere la crisi libica e assicurare una ricomposizione del dialogo con la Russia con un vero “partenariato cooperativo” e di concrete “misure di fiducia” con la Russia, dopo la “distruzione” dell’architettura politica e giuridica del regime di sicurezza europeo avvenuto in Ucraina;
B) “last but not least”, una priorità assoluta per il nostro Paese è una “politica europea dell’energia”. Non tanto perchè si possa essere intimoriti dai “condizionamenti politici” del gas russo. Ma perché i Russi ci fanno pagare il loro gas ben al di sopra della media europea: una “tassa penalizzante” per le nostre aziende esportatrici, oltre che per le nostre tasche. La Commissione europea ha – finalmente! – allo studio la creazione, come primo passo, di un’Agenzia che tratti gli acquisti di gas a nome di 28 Stati membri, creando così un ben diverso e assai più forte “mercato della domanda” rispetto al monopolio Russo dell’offerta. I prezzi del gas diventerebbero più vantaggiosi e uniformi anche per gli italiani che ora pagando di più. Incredibilmente, il Governo starebbe contrastando questa iniziativa. L’Italia ancora “provincia del mondo vittima dei propri “piccoli” ragionamenti e delle pressioni dei soliti poteri forti?
Grazie