Nella “Agenda for Peace” proposta dal Segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali nel 1992, veniva per la prima volta radicata, obbligatoriamente, nelle strategie dell’intero Sistema di strumenti, strategie e programmi delle Nazioni Unite una fondamentale correlazione: quella del rapporto diretto e inscindibile tra Sicurezza, Diritti Umani, e Sviluppo. Una “reductio ad unum” ritenuta all’epoca quasi scontata. Non lo era.
Oggi, a un quarto di secolo di distanza, un progresso equilibrato e interdipendente tra Sicurezza, Diritti umani e Sviluppo è ancora lontano dal realizzarsi. Anzi, si allenta. Da una quindicina d’anni Diritti umani e Stato di Diritto stanno subendo un’erosione soprattutto perché si è rovesciata quella tendenza espansiva della democrazia liberale che aveva caratterizzato gli anni ’90. Talune democrazie sono divenute democrature; si diffondono nuove norme restrittive delle libertà; anche da noi i diritti umani sono trattati con disattenzione e spesso suscitano insofferenza; radicalizzazione e propaganda all’odio si propagano a macchia d’olio sul web; la libertà religiosa e di pensiero viene messa in discussione, mentre il controllo dei Governi sui media compromette in molti paesi anche occidentali una vera libertà di informazione.
In altre parole la formula “Sicurezza/Diritti umani/Sviluppo” si scompone pericolosamente. Questo non fa che alimentare l’arbitrario uso della forza invece del ricorso agli strumenti del Diritto internazionale. Sul piano della sicurezza e della pace, l’arretramento dello Stato di Diritto lascia impuniti i crimini contro l’umanità, mentre nell’economia mondiale restano pressoché inalterate le pratiche predatorie e corruttive di una finanza fuori controllo. L’industria estrattiva continua a deturpare i “common goods” dell’ambiente e del clima, distruggendo beni che appartengono non alle imprese coinvolte, ma alla collettività nel suo insieme. L’ondata della radicalizzazione e del Jihadismo trova nell’arretramento dello Stato di Diritto un terreno fertile.
Le trasformazioni geopolitiche seguite alle Primavere Arabe e al riemerso contrasto Est Ovest, hanno innescato un acceso dibattito sull’Islam. La questione più rilevante riguarda il rapporto tra Democrazia liberale e Islam politico, e in particolare la deriva verso il fondamentalismo islamico. Così viene generalmente definita-erroneamente secondo alcuni- un’interpretazione della religione basata sulla assoluta ed esclusiva applicazione della Sharia nella sua purezza, voluta dai Salafiti. Un’altra correlazione, asserita da molti e contestata da altri riguarda quella tra terrorismo e radicalizzazione; e un’altra ancora quella tra immigrazione e sicurezza. La discussione sull’Islam politico e sulle correnti islamiste costituisce indubbiamente il punto centrale di tutte queste analisi e delle diverse posizioni sui temi della sicurezza, dei Diritti umani e dello Sviluppo.
Il Governo Italiano ha annunciato il 1° febbraio scorso la firma di un protocollo di intenti sui rapporti tra Stato Italiano e Islam. Un passo nella giusta direzione. Esso tende ad attuare l’art.8, c3 della Costituzione che stabilisce che i rapporti tra lo Stato e le diverse confessioni religiose siano regolati da leggi basate sulle intese tra le parti. Si tratta tuttavia, ad avviso di molti, solo di un primo passo per due motivi.
Il primo perché il documento raccoglie una serie di principi importanti che riguardano soprattutto gli obblighi dello Stato per garantire e facilitare in ogni modo possibile l’esercizio del culto. Ma le intese ancora da definire dovranno necessariamente riguardare tanto i diritti riconosciuti quanto gli obblighi delle Organizzazioni firmatarie nei confronti dello Stato. In altri paesi che hanno da tempo leggi sui rapporti tra Stato e Islam, come l’Austria con l’Islamgesetz, diritti e doveri sono definiti da norme vincolanti.
Il secondo motivo riguarda le Organizzazioni che hanno firmato il documento del 1° febbraio. E’ molto importante l’equità e l’eguaglianza sostanziale tra ognuna delle Organizzazioni firmatarie. E’ evidente che se il principio della uguaglianza di trattamento, previsto dalla Costituzione, da parte dello Stato italiano deve valere ad esempio, tra le diverse confessioni come quella ebraica, cattolica, valdese e altre, la parità di trattamento deve essere assicurata anche alle diverse confessioni dell’Islam, sufi, salafita, sciita, wahabita o altre. E qui sorge la questione di fondo della Fratellanza Musulmana in Europa e in Italia, dato che alcune delle otto associazioni firmatarie del documento dell’1 Febbraio sarebbero ad essa riconducibili.
La storia dei Fratelli Musulmani è di rilevanza centrale nell’Islam contemporaneo e nell’evoluzione dell’Islam politico. La loro influenza ha segnato da un secolo le vicende di tutti i paesi Arabi, e in particolare dell’Egitto. Da diversi decenni questa influenza si è molto accresciuta anche in Europa. La Fratellanza costituisce una grande forza religiosa, sociale, politica, culturale, ed economica. Da più di mezzo secolo l’organizzazione si è radicata in Europa, prima in Svizzera e in Gran Bretagna, quindi in Francia, in Italia e nel resto del continente.
Lorenzo Vidino, membro della commissione governativa che ha stilato il rapporto sul contrasto alla radicalizzazione Jihadista in Italia presentato dal PdC Gentiloni in Dicembre, ha certamente contribuito al lavoro per l’intesa tra Governo e Organizzazioni Islamiche del 1° Febbraio. Vale quindi la pena di ricordare che il Prof. Vidino, è stato autore di un’importante ricerca sulla Fratellanza Musulmana in Europa pubblicata nel 2010 (The New Muslim Brotherhood in the West). Il libro evidenzia l’enorme influenza esercitata dalla prima metà del Novecento dal fondatore della Fratellanza, Hassan al Banna nel riorganizzare, modernizzare e “dare popolarità al discorso sull’Islam”. Il motto “l’Islam è la soluzione – al-Islam huwa al-hal” nasce con al Banna. Per al Banna, e per i “murshid” che gli succedono alla guida della Fratellanza, l’Islam è una dimensione spirituale, sociale e politica completa e inclusiva. Essa abbraccia tutti gli aspetti della vita privata e pubblica, della legge, dell’economia e della cultura. Al centro di questa visione sta la missione per tutti i Musulmani: “Dawa”, l’invito di Dio e il dovere individuale per ciascun Musulmano di diffondere la fede reintroducendo il “vero Islam”, lottando contro il degrado morale prodotto da mondo occidentale, condannato aspramente e stigmatizzato in ogni sua manifestazione e contenuto. La Fratellanza si concentra sin dall’inizio sul radicamento della fede nell’individuo e nella famiglia musulmana, mette l’accento sulla giustizia, sulla islamizzazione dell’intera società nella quale deve poi automaticamente diffondersi la Sharia nella sua purezza. Molto dopo al Banna, negli anni 2000 quando la Fratellanza si è ampiamente diffusa e rafforzata anche in Europa, un’altra personalità diventa un riferimento molto importante, anche se non pienamente integrato nell’organizzazione dei Fratelli Musulmani, tanto da venir considerato -nella definizione del WSJ-una sorta di “Papa sunnita”: Yussuf Al Qaradawi. Laureato all’università di Al-Azhar, egli lascia negli anni ’60 l’Egitto per il Qatar, insegnando e ottenendo un grande seguito tra le élites del Golfo. Diventa popolarissimo anche tra il grande pubblico con la trasmissione settimanale di al Jazeera “Sharia and Life”. Il suo insegnamento tende sin dagli anni ’70 a cogliere l’esigenza di adattarsi alla realtà nella quale i Fratelli Musulmani operano in Occidente. Qaradawi sembra, ad esempio, privilegiare il principio del “Dawa”, il dovere di diffondere la fede nella sua purezza, su quello della Jihad quale mezzo per creare uno Stato Islamico. La popolarità di Al Qaradawi tra i Musulmani europei va oltre la cerchia della Fratellanza.
Merita cogliere alcuni aspetti del suo insegnamento. Al Qaradawi sostiene che il principio democratico vale ma solo selettivamente, nei rigidi limiti dell’immutabilità della Legge di Dio. Il costante riferimento di Al Qaradawi ai valori di libertà, diritti umani, giustizia, equità ha fatto scrivere a studiosi dell’Islam -come John Esposito e altri- che lo Sceicco è “impegnato in una interpretazione riformatrice dell’Islam e del suo rapporto con democrazia, pluralismo e diritti umani”. In superficie, queste enunciazioni sembrerebbero compatibili con l’affermazione dei diritti universali dell’uomo e con le libertà imposte al centro delle democrazie liberali. L’analisi approfondita dimostra invece che le posizioni di Al Qaradawi e della Fratellanza sono antitetiche e incompatibili con i diritti dell’uomo e con le libertà universalmente riconosciute. Sull’omosessualità, Al Qaradawi si è ripetutamente espresso sulla necessità che quanti si macchiano di tali “pratiche depravate” devono essere puniti fisicamente e in alcuni casi con la morte,” per mantenere la purezza della società Islamica e tenerla pulita da elementi pervertiti”. In una Fatwa sulla libertà religiosa, Al Qaradawi ha definito la conversione dall’Islam a altre fedi “il più orribile intrigo dei nemici dell’Islam”, accusando “i missionari invasori” dei tentativi di conversione dei musulmani. Altre sue pronunce riguardano l’apostasia, da punire severamente e se pubblica con l’esecuzione capitale.
Su analoghe posizioni si trovano altre personalità centrali nel pensiero e nell’attività di proselitismo dei Fratelli Musulmani. Non è quindi sorprendente che la Fratellanza, con i suoi finanziamenti ad Hamas e il “doppio linguaggio” che le viene attribuito nella profonda diversità tra i suoi interventi televisivi, e la predicazione per gli adepti, preoccupi da tempo gli organismi di sicurezza in Europa. In Belgio, ad esempio, i rapporti della Sicurezza di Stato rivelano che “la presenza di una struttura clandestina della Fratellanza almeno da inizio anni ’80. L’identità dei suoi membri è segreta. Operano con grandissima discrezione. Cercano di diffondere la loro ideologia tra la comunità musulmana in Belgio e mirano soprattutto ai giovani di famiglie immigrate di seconda è terza generazione. Ricercano il controllo delle associazioni religiose, sportive, sociali e insistono per esser riconosciuti quali interlocutori esclusivi delle autorità nazionali ed europee nella trattazione delle questioni concernenti l’Islam”. E’ importante sottolineare che questo rapporto è stato scritto otto anni fa, prima di una massiccia ondata migratoria da paesi musulmani. Essa ha creato opportunità del tutto nuove – pensiamo ad esempio all’attrazione che esercita la Fratellanza su rifugiati siriani di ottima formazione professionale – per la diffusione dell’ideologia proposta dalla Muslim Brotherhood.
La ricerca di Vidino si concludeva, nel 2010 con alcune constatazioni che acquistano una nuova attualità con il dibattito in corso a Washington sulla possibile iscrizione della Fratellanza islamica tra le Organizzazioni appartenenti all’Islam radicale e fondamentalista sostenitore del terrorismo internazionale. La diversità di opinioni non è nuova e spazia dalla constatazione delle “duplicità” di dichiarazioni e comportamenti dei Fratelli musulmani, sino alla tesi che l’organizzazione sia un “pompiere” per motivi tattici, ma “incendiaria” per i suoi obiettivi strategici.
E’ vero che i membri riconoscibili della Fratellanza islamica in Occidente che si sono radicalizzati e impegnati in azioni violente sono pochi, ma è anche vero che la Fratellanza fornisce il retroterra ideologico per la radicalizzazione, creando una mentalità di assedio tra i musulmani che è l’anticamera della violenza. La narrativa della Fratellanza è basata sulla vittimizzazione dei musulmani, quale premessa alla giustificazione della violenza, anche se formalmente tale violenza viene poi condannata dai loro leaders.
L’esperienza consiglia una politica di grande cautela nei confronti di questa grande forza interna al mondo islamico e sempre più attiva anche in Europa.
Una decisione americana di considerare la Fratellanza una organizzazione sostenitrice del terrorismo internazionale avrebbe inevitabili ripercussioni per l’Unione Europea e i suoi Paesi membri. Pensiamo ad esempio alle misure di controllo sui finanziamenti e al riciclaggio con finalità terroristica. Pensiamo anche alla legittimazione di Associazioni espressione della Fratellanza o ad essa collegate, nel sottoscrivere intese con lo Stato.
Se in ogni caso il quadro di insieme non dovesse sostanzialmente mutare, è certo che le Comunità musulmane in Europa si devono sempre più confrontare con società civili, Istituzioni, leggi, tradizioni e culture basate sul pluralismo, sul dialogo, sull’uguaglianza e sul rispetto di una legalità laica quale principio essenziale di convivenza.
E’ quindi fortemente auspicabile che il nostro Paese affronti in profondità e con politiche idonee la questione del rapporto con l’Islam europeo.
Si tratta, per l’Italia, di priorità evidenti anche per la sicurezza nazionale. E’ nostro interesse lanciare iniziative diplomatiche europee e atlantiche in questa direzione. Il mezzo milione di immigrati entrati spesso senza identificazione sul nostro territorio negli ultimi tre anni proviene in notevole percentuale da Paesi musulmani. La precarietà della loro condizione economica e psicologica li rende facili destinatari di un coinvolgimento e di un’interessata opera di assistenza da parte di moschee e centri di proselitismo Salafita e Wahabita dove gli impulsi all’estremismo e alla radicalizzazione sono all’ordine del giorno.
Nella strategia complessiva che dovremmo urgentemente avviare nei rapporti con il mondo Musulmano vi sono Paesi, Governi e realtà che operano in sostegno degli obiettivi di dialogo, tolleranza ed evoluzione culturale verso riforme e modernità, come noi auspichiamo. Vale per tutti, oltre al significativo e esplicito discorso pronunciato ad inizio del 2015 dal Presidente Egiziano el-Sisi all’Università Al-Azhar del Cairo in sostegno di un Islam riformato, l’azione svolta da tempo dal Re del Marocco Mohammed VI. Il 20 agosto scorso il Re, rivolgendosi alla comunità dei credenti nel suo ruolo di capo del consiglio superiore degli Ulema, ha affrontato con grande chiarezza il tema del fanatismo musulmano, dell’Africa e dei migranti. Ha condannato in modo durissimo l’assassinio di padre Hamel, dicendo: “Siamo convinti che l’assassinio di un prete è un atto illecito secondo la legge divina. La sua uccisione dentro a una Chiesa e follia imperdonabile. I terroristi che agiscono in nome dell’Islam non sono musulmani e sono condannati all’inferno per sempre”.
L’azione del governo marocchino nel contrasto all’estremismo e nel consolidamento di una fede tollerante e moderata ha preso una dimensione rilevante dopo i gravi attentati di Casablanca nel 2003, con 45 vittime. Ogni anno Rabat forma 200 nuovi Imam e predicatori, e organizza per due giorni ogni mese seminari di aggiornamento che coinvolgono 50.000 Imam. Si tratta di un impegno sorretto da un considerevole sforzo economico. Uno sforzo rivolto anche all’estero. Nel Marzo 2015 il Re ha inaugurato l’Istituto Mohammed VI di formazione del clero musulmano. L’idea è nata anche in questo caso per rispondere alla minaccia Jihadista, originata nel 2012 in Mali. L’originario programma per la formazione di Imam di tale Paese si è rapidamente esteso ad altri paesi africani. Significativa in tale contesto la Dichiarazione promossa dalle Autorità marocchine nel gennaio 2016 a Marrakech. Essa contiene espliciti riferimenti ai principi universali già previsti dai testi sacri islamici: il rispetto della dignità umana e della libertà religiosa, il principio di giustizia e di non discriminazione, e pone come scopo comune la “piena tutela dei diritti e delle libertà di tutti i gruppi religiosi”, affermando “che è inconcepibile impiegare la religione allo scopo di aggredire i diritti di minoranze religiose nei paesi musulmani “.
Il Marocco non è il solo Paese al quale l’Italia è gli altri Paesi occidentali dovrebbero sempre più collegarsi per attività di formazione destinate a comunità emigrate in Europa da Paesi musulmani. In Egitto l’Università Al-Azhar forma dal 2012 migliaia di predicatori e religiosi che operano nel Paese e all’estero. Dallo scorso anno la Francia ha programmi di formazione degli Imam con l’Egitto e con l’Algeria. Anche per noi si tratta di iniziative di estrema importanza alle quali la politica estera del nostro Paese deve dedicarsi a fondo. Ovviamente, non soltanto la politica estera. Negli ultimi due decenni il rapporto delle Istituzioni e dei Governi con la complessa e culturalmente ricca realtà dell’Islam italiano è stato alto tra le priorità della politica nazionale, ma per intervalli troppo lunghi è stato relegato altrove, riemergendo nel dibattito politico soltanto quando si sono aperte emergenze migratorie, terrorismo o problemi di ordine pubblico. L’azione di politica estera deve inserirsi in una visione complessiva, nella quale scuola, educazione al dialogo e alla tolleranza, riconoscimento della identità siano al centro del rapporto con tutte le comunità musulmane nel nostro Paese. Ciò non può avvenire senza la collaborazione dei Paesi che hanno con queste comunità collegamenti importanti.
Poco più di due anni fa Ayaan Hirsi Ali ha riassunto in un suo libro di successo, provocatoriamente intitolate Heretic i motivi per i quali il mondo musulmano dovrebbe evolvere verso la modernità attraverso una sua visione riformata dal suo interno. Secondo questa tesi, ancor più della tradizionale ripartizione dei musulmani, tra Sunniti, Sciiti e altre confessioni, si dovrebbe guardare più alle divisioni tra musulmani che non alle divisioni dell’Islam. L’Islam è un singolo credo basato sul Corano e sulla hadit, rivelato dall’Angelo Gabriele al Profeta. Esso riunisce tutti i musulmani nella professione di fede “Shahada” che non vi è altro Dio fuori di Allah e che Maometto è il suo Profeta. La Shahada può sembrare simile alla dichiarazione di fede di altre confessioni Occidentali basate sulla libertà individuale, di coscienza e di religione, ma in realtà essa è un simbolo tanto religioso quanto politico. Vi è da tener presente che nel periodo prima della Egira, Maometto si rivolgeva a comunità politeiste affinché abbandonassero i loro idoli e le invitava a riconoscere che non vi è nessun Dio al di fuori di Allah e che lui era il Messaggero. Ma dopo dieci anni di questa predicazione basata sul coinvolgimento e la persuasione, Maometto e il suo gruppo si diresse verso Medina e da quel momento la missione del Profeta assunse una dimensione politica. Gli infedeli erano ancora invitati a sottomettersi ad Allah, ma dopo la conquista di Medina erano attaccati se rifiutavano e se sconfitti non avevano altra alternativa che quella di convertirsi o morire.
Secondo questa interpretazione si pone il problema se la Shahada appartenga di più ai musulmani della Mecca o a quelli di Medina. C’è una gran parte di fedeli che si identifica maggiormente nei primi, ma l’Islam politico nato con la conquista di Medina e con il simbolo di una moralità assoluta che essa rappresenta sta rapidamente crescendo di importanza.
Ayaan Hirsi Ali distingue così tre gruppi di musulmani: i “millenaristi” che sostengono un Islam intatto dalle sue origini nel Settimo Secolo. Esso rievoca le sette fondamentaliste fiorite nella Cristianità Medioevale prima della riforma spesso intrise di fanatismo e violenza e anticipatrici della fine del mondo, sia pure con tutte le differenze riconoscibili rispetto ai musulmani. In questo primo gruppo prevale l’insegnamento di Maometto sulle azioni che dovevano consentirgli di conquistare Medina. Sarebbe questa la fase alla quale possono essere ricondotte le prescrizioni più violente come quelle della decapitazione per gli infedeli, della lapidazione per gli adulteri e dell’impiccagione per gli omosessuali.
Il secondo gruppo, maggioritario nel mondo musulmano consiste di fedeli devoti al loro credo e non inclini alla violenza. Tra loro specialmente si avvertono le tensioni poste dalla modernità e dalle innovazioni, sentite nel mondo mediterraneo e asiatico, ma ancor più forti per le comunità musulmane in Europa.
Infine, vi è un terzo gruppo di musulmani dissidenti: alcuni indotti dall’esperienza a concludere di dover magari lasciare la pratica religiosa ma di restare impegnati sul dibattito del futuro dell’Islam; la maggioranza tuttavia è costituita da credenti e da religiosi “riformisti” che si sono convinti della necessità che la loro religione evolva se i suoi seguaci non devono essere condannati a un ciclo interminabile di violenza politica.
EU Guidelines on the promotion and protection of freedom of religion or belief FOREIG AFFAIRS Council meeting Luxembourg, 24 June 2013 The Council adopted the following guidelines:
- Introduction A. Reason for Action
- The right to freedom of thought, conscience, religion or belief1, more commonly referred to as
the right to freedom of religion or belief (FoRB) is a fundamental right of every human being. As a
universal human right, freedom of religion or belief safeguards respect for diversity. Its free
exercise directly contributes to democracy, development, rule of law, peace and stability. Violations
of freedom of religion or belief may exacerbate intolerance and often constitute early indicators of
potential violence and conflicts.
- All persons have the right to manifest their religion or belief either individually or in community with others and in public or private in worship, observance, practice and teaching, without fear of intimidation, discrimination, violence or attack. Persons who change or leave their religion or belief, as well as persons holding non-theistic or atheistic beliefs should be equally protected, as well as people who do not profess any religion or belief.
- Purpose and scope
- Violations or abuses of freedom of religion or belief, committed both by state and non-state
actors, are widespread and complex and affect people in all parts of the world, including Europe.
- In promoting and protecting freedom of religion or belief, the EU is guided by the universality,
indivisibility, inter-relatedness and interdependence of all human rights, whether civil, political,
economic, social or cultural.
- In line with universal and European human rights standards2, the EU and its member States are
committed to respecting, protecting and promoting freedom of religion or belief within their
borders.
See article 18 of the UDHR and article 18 of the ICCPR.
In Europe, freedom of religion or belief is notably protected by Article 9 of the European Convention on Human Rights and Article 10 of the EU Charter of Fundamental Rights. See Annex for a non-exhaustive list of international norms and standards.
- With these Guidelines, the EU reaffirms its determination to promote, in its external human rights policy, freedom of religion or belief as a right to be exercised by everyone everywhere, based on the principles of equality, non-discrimination and universality.
- In doing so, the EU focuses on the right of individuals, to believe or not to believe, and, alone or in community with others, to freely manifest their beliefs. The EU does not consider the merits of the different religions or beliefs, or the lack thereof, but ensures that the right to believe or not to believe is upheld. The EU is impartial and is not aligned with any specific religion or belief.
- The Guidelines explain what the international human rights standards on freedom of religion or belief are, and give clear political lines to officials of EU institutions and EU Member States, to be used in contacts with third countries and with international and civil society organisations. They also provide officials with practical guidance on how to seek to prevent violations of freedom of religion or belief, to analyse cases, and to react effectively to violations wherever they occur, in order to promote and protect freedom of religion or belief in the EU’s external action.
- Definitions
- Freedom of religion or belief is enshrined in Articles 18 of both the Universal Declaration of Human Rights (UDHR) and of the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), which should be read in the light of the UN Human Rights Committee’s General Comment n°22.
Under international law, FoRB has two components:
(a) the freedom to have or not to have or adopt (which includes the right to change) a religion or belief of one’s choice, and
(b) the freedom to manifest one’s religion or belief, individually or in community with others, in public or private, through worship, observance, practice and teaching.
- In line with these provisions, the EU has recalled that “freedom of thought, conscience, religion or belief, applies equally to all persons. It is a fundamental freedom that includes all religions or beliefs, including those that have not been traditionally practised in a particular country, the beliefs of persons belonging to religious minorities, as well as non-theistic and atheistic beliefs. The freedom also covers the right to adopt, change or abandon one’s religion or belief, of one’s own free will.”3
— Right to have a religion, to hold a belief, or not to believe