3 Marzo 2016
Sala Atti Parlamentari, Biblioteca del Senato
Le crisi provocate da terrorismo, da repressioni sanguinose, dal ricorso alla forza per affermare spazi di influenza, e per scardinare una legalità faticosamente costruita nel tempo, hanno sempre più marcato il presente decennio.
I massacri avvenuti durante le Primavere Arabe proseguono in una guerra civile che ormai molti considerano vero e proprio genocidio dei Siriani sunniti. La minaccia terroristica dello Stato Islamico in Medio Oriente e in Libia, le destabilizzazioni provocate da Stati falliti dimostrano che conflitti e violenze non sono solo continuano a caratterizzare la vita internazionale ma che diventano ancor più diffusi, che sempre più colpiscono le popolazioni civili, e le componenti più deboli: bambini, donne, minoranze etniche e religiose.
È nelle fasi critiche delle transizioni del potere e della ricostruzione statuale che maggiormente si constata la debolezza delle Istituzioni. Perciò la Giustizia Transizionale – Transitional Justice – diviene così importante. Si tratta di una funzione che ha impegnato e continuerà a impegnare la dottrina giuridica, la diplomazia ,le organizzazioni multilaterali; se ne devono cogliere la rilevanza politica, le ulteriori potenzialità e gli interrogativi irrisolti.
Li esemplifica la storia della Truth and Reconciliation Commission Sud Africana. Come ha recentemente affermato uno dei suoi protagonisti negli anni ‘90, George Bizos, la Commissione ha discusso una miriade di casi per amnistiare quanti contribuissero al pieno accertamento della Verità, contribuendo a rendere giustizia alle vittime. “Ma da diversi anni, ha constatato Bizos, viene fatto poco. Interferenze politiche hanno bloccato o ritardato indagini e possibili condanne di altri colpevoli”.
Ci sono voluti 33 anni perché sulla orribile morte di una giovanissima attivista anti-Apartheid, Nokuthula Simelane, potesse finalmente essere fatta giustizia. E per vedere i carnefici, quattro agenti della sicurezza, tradotti dinanzi a un tribunale Sudafricano grazie al lavoro svolto dalla Truth and Reconciliation Commission.
Ci sono voluti 23 anni per portare Hissène Habrè dinanzi alle Camere Straordinarie Africane, la Corte appositamente istituita per giudicare l’ex dittatore Chadiano al potere tra il 1982 e il1990, accusato di numerosi crimini contro l’umanità. Un processo che, dopo quelli nei confronti di Milosevic, di Charles Taylor e di quello avviato alla Corte Penale Internazionale per il Presidente Sudanese al-Bashir, per il Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e numerosi altri africani, viene considerato un test di grande importanza per la credibilità del sistema di giustizia internazionale.
Il processo a Hissène Habrè tende a ristabilire due principi: il primo, che i Capi di Stato Africani possano essere chiamati a rispondere di crimini contro l’umanità da istanze sovrannazionali poste anche al di fuori dei rispettivi paesi; il secondo, che esiste comunque una Giurisdizione competente anche se al di fuori del continente africano viene contestata la Corte Penale Internazionale dell’Aja – pur essendo negoziata e ratificata dagli Stati dell’Africa – perché non avrebbe sufficiente “legittimazione politica” a giudicare personalità africane. Di questa seconda tesi era stato fautore soprattutto il Presidente Kenyatta. Il 31 gennaio scorso egli aveva convinto l’Unione Africana a prendere in considerazione la proposta di un ritiro dei paesi africani dalla Corte Penale Internazionale. Dieci anni prima l’Unione Africana aveva già chiesto al Senegal di sottoporre Hissene Habre a giudizio in nome e per conto dell’Unione Africana, proponendo l’EAC quale alternativa alla Corte dell’Aja. Ma non era accaduto nulla. L’avvio in queste settimane del giudizio contro Hissène Habrè su ulteriore impulso africano dimostra che gli Stati del continente non intendono garantire facili impunità.
Molti commentatori stanno, forse prematuramente, rallegrandosi per le testimonianze prodotte contro Hissène Habrè.”È una vittoria per le vittime e anche per le Organizzazioni Non Governative che hanno affrontato per molti anni una protratta saga politico giudiziaria dopo la prima denuncia presentata nel 2000”, ha scritto il New York Times. Sin dagli anni ‘80 Amnesty International e Human Rights Watch avevano raccolto testimonianze per un processo.
Questi precedenti sono di fondamentale importanza per il principio della Conoscenza e della Giustizia. L’accertamento delle responsabilità per il massacro di Khojaly è ancora incompiuto. Dobbiamo assolutamente evitare che ciò abbia a ripetersi per i crimini contro l’umanità che devastano oggi la Siria. Nessuna impunità può essere tollerata per i massacri di civili, per gli ospedali e le scuole bombardate ad Aleppo, per le torture ed eliminazioni di massa documentate da Cesar e pubblicate recentemente ancora da Human Rights Watch.
Il massacro di Khojaly è stato un episodio di gravità estrema. Manca ancora un’adeguata punizione dei responsabili. Ciò ha riguardato alla fine della Guerra Fredda diversi “conflitti congelati”. Conflitti che non solo rimangono irrisolti, ma che rischiano di riaccendersi ingigantiti in Ucraina Orientale, provocando altri crimini contro l’umanità, come i molti perpetrati nell’ultimo quarto di secolo. Essi devono ottenere risposte sul piano politico, giurisdizionale, e umanitario.
La Comunità internazionale ha maturato una crescente consapevolezza nella definizione di un vero e proprio “Diritto dell’Umanità”. Se la fine del Comunismo ha prodotto crisi violente, politiche e interetniche, le linee di frattura si sono moltiplicate e ingigantite dopo l’11 Settembre 2001 e nel decennio successivo. Dal Kossovo, al Darfur, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, alla Siria siamo confrontati a nuovi tipi di conflitti. Strategie quali “containment”, “deterrenza”, “sfere di influenza” rivelano la loro inadeguatezza. Sarebbe illusorio nasconderci i troppi impegni disattesi. Già nel 1999 Kofi Annan scriveva: “Noi dobbiamo essere più che mai consapevoli che l’obiettivo della Carta delle Nazioni Unite è proteggere gli esseri umani: non proteggere chi abusa di loro”. Sono in molti a chiedersi se ad Aleppo le Nazioni Unite siano davvero dalla parte giusta.
Solo cinque anni fa la preoccupazione umanitaria aveva una priorità massima per l’Occidente. Nel marzo 2011 il Presidente Obama dichiarava a proposito dell’intervento in Libia contro la sanguinosa repressione avviata da Gheddafi: “Metter da parte la responsabilità dell’America quale leader e – più profondamente – la nostra responsabilità verso nostri simili in queste circostanze sarebbe stato tradire chi noi siamo. Alcune nazioni possono esser capaci di essere cieche di fronte ad atrocità in altri paesi. Gli Stati Uniti d’America sono diversi. E come presidente io mi sono rifiutato di aspettare le immagini di massacri e fosse comuni prima di agire”.
Nonostante le delusioni di questi ultimi anni per l’incapacità della Comunità internazionale nel prevenire le crisi che stiamo vivendo, è innegabile – e lo dimostrano gli sviluppi recenti della Giustizia transizionale – la trasformazione del rapporto tra Diritto e violenza nella politica globale. Il fondamento normativo della legalità internazionale continua a evolvere da un’enfasi imperniata sulla sicurezza dello Stato, sui confini, sulla Sovranità, sul territorio nazionale, verso un’enfasi sempre più focalizzata sulla “human security”: verso la sicurezza della persona e dei popoli.
Questo emergente “Diritto dell’ Umanità collega il sistema normativo dei Diritti Umani al diritto bellico e alla giustizia penale internazionale, modificando termini di riferimento e narrativa delle relazioni internazionali”.
Nell’interpretare ed elaborare un Diritto dell’Umanità, i Tribunali e le diverse istanze giurisdizionali hanno attinto a fonti normative diverse; hanno ampliato la sfera dei diritti soggettivi e delle responsabilità dei Governi; hanno abbassato le soglie che consentono di chiamare direttamente in causa la responsabilità legale degli Stati per comportamenti incompatibili sotto il profilo umanitario, come avvenuto di recente alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Abu Omar; hanno deciso di estendere le loro deliberazioni ad attori non statuali, come le milizie Serbo Bosniache nel processo Tadic, ridimensionando il tradizionale schermo delle prerogative attinenti alla sovranità statuale quando esse interferivano con l’obiettivo prioritario di proteggere persone e popolazioni minacciate dalla violenza interetnica.
L’affinamento normativo poggia su tre capisaldi consolidatisi dal Secondo Dopoguerra.
Il primo è l’art. 3 della Convenzioni di Ginevra del 1949 che proibisce uccisioni, torture e trattamenti crudeli. Vi è divieto assoluto di attaccare popolazioni civili, il che dovrebbe sgombrare il terreno da ogni riserva posta al CdS dell’Onu da Russia e Cina per deferire Bashar al-Assad alla CPI dell’Aja. Il principio di proporzionalità nell’evitare l’uso eccessivo della forza, l’obbligo di trattamenti umani per i prigionieri, di protezione delle popolazioni civili e dei loro beni, fanno tutti parte del fondamentale pilastro costituito dall’art. 3 delle Convenzioni di Ginevra. Ad esso si richiama la sempre più ricca giurisprudenza delle Corti Penali Internazionali.
Il secondo caposaldo è costituito dalle norme convenzionali e consuetudinarie sui Diritti Umani. Esse obbligano gli Stati in tempo di pace a proteggere diritti individuali e collettivi sul proprio territorio. E la Corte Internazionale di Giustizia ha significativamente esteso tali obblighi anche ai conflitti armati.
Il terzo caposaldo poggia sulla Giustizia penale Internazionale. Essa sposta considerevolmente la titolarità di diritti e obblighi che il Diritto Internazionale pone in capo agli Stati. L’ ”enforcement” riguarda sempre più spesso gli individui. Storicamente, si tratta di un percorso che è stato avviato dal Tribunale Internazionale Militare di Norimberga, è proseguito con la Convenzione contro la Tortura, si è consolidato con i Tribunali creati dopo i genocidi in Europa e in Africa, con la Corte Penale Internazionale, e con l’affermarsi della “giurisdizione universale” per crimini contro l’umanità.
I tre pilastri – Convenzioni di Ginevra; sistema dei Diritti Umani, Giustizia penale internazionale – estendono l’ambito della “Humanity’s Law”. La concezione classica di una legalità che trae la sua origine dalla Sovranità dello Stato e dall’interesse nazionale ha subito una sensibile evoluzione. Sempre più sono considerazioni umanitarie – in primis, il diritto alla vita – a motivare l’azione dei Governi.
Nella concezione classica della sovranità, gli Stati erano legittimati ad agire al proprio interno senza sostanziali restrizioni. All’esterno, obblighi e limiti derivavano unicamente da accordi sottoscritti dagli Stati, o da consuetudini condivise. Lo Statuto delle Nazioni Unite codificava tale stato di cose, enfatizzando i principi di sovranità, di regolamento pacifico delle controversie, di esclusione del ricorso alla forza se non per legittima difesa (art.51).
Già nel ’99 Kofi Amman scriveva: “la sovranità dello Stato è in corso di essere ridefinita. Gli Stati vengono ampiamente considerati strumenti al servizio dei propri popoli e non viceversa…quando leggiamo lo Statuto dell’ONU oggi, dobbiamo essere più che mai consapevoli che il suo scopo è proteggere gli essere umani, non coloro che ne abusano”.
Per secoli, a partire dall’ordine Westfaliano, si è consolidata una legalità stato-centrica: autodeterminazione, confini, controllo su territorio e popolazione, riconoscimento della soggettività ne sono stati componenti essenziali. Una visione stato-centrica della Sovranità permea lo Statuto delle Nazioni Unite, si traduce in norme sulla sicurezza collettiva, impegna gli Stati in campo economico-sociale e nello sviluppo. Si tratta di una impostazione che non si sta affatto appannando. Per molti versi, anzi, questa visione appare rilanciata da crisi identitarie e congiunture economiche negative. Persino nel contesto geopolitico che ha raggiunto nel corso dell’ultimo secolo il maggior livello di integrazione – l’Unione Europea – il principio di Sovranità trova una sua rinnovata enfasi, nelle posizioni di alcuni Stati membri, a cominciare dalla Gran Bretagna, e nelle rivendicazioni di nuove formazioni politiche.
Per numerosi membri delle Nazioni Unite, la Sovranità continua a rappresentare una leva fondamentale, nel solco della decolonizzazione anni ’50-‘60 e della rimessa in discussione dell’ordine mondiale post guerra fredda. Tuttavia la sovranità Stato-centrica sta perdendo il tradizionale status di “elemento primario e assoluto” della legalità internazionale. Si è ragionevolmente sostenuto (Ruti G. Teitel, “Humanity’s Law”) che “Sovereignty is no longer a self evident foundation for International Law”.
C’è uno scostamento in atto: il discorso Stato-centrico, prevalso sino alla fine del secolo scorso, si è trasformato in un discorso assai più ampio e transnazionale, secondo le linee di un “Diritto dell’Umanità”. Legalità e legittimazione della forza vengono con crescente frequenza collegati ai diritti delle persone e dei popoli anziché a interessi e prerogative degli Stati. In questo senso il Diritto dell’Umanità si estende alla protezione di quanti subiscono conflitti tra Stati, occupazioni militari e “Guerre al terrorismo”. Trattati recenti, come la Convenzione sulle mine antiuomo, e molte Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – tra cui la Ris. 2139 del febbraio 2014 che da due anni vieta ad Assad di utilizzare “barili bomba” – estendono la portata del diritto internazionale in direzione di un’accresciuta protezione umanitaria. Nello stesso senso si è arricchita la prassi giurisprudenziale della CPI, della ICTY (International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia), della Corte Europea e di quella Inter-americana dei Diritti Umani, degli organi di Giustizia Transizionale in Africa, nelle Americhe, nell’area OSCE, mentre il principio della “giurisdizione universale” si sta diffondendo da anni in diversi sistemi giudiziari nazionali.
Sta così universalizzandosi un vero e proprio Diritto dell’Umanità riferito alla protezione della persona umana e della sua dignità, con molteplici Istituzioni che partecipano attivamente al processo normativo e alla sua applicazione.
La Verità incompleta accertata su Khojaly dimostra l’insufficienza della comunità internazionale nel sanzionare responsabilità di individui, organizzazioni, gruppi, Governi. Ciò accomuna Khojaly ad altri crimini contro l’umanità. I più gravi di questi ultimi anni sono certamente stati commessi in Siria: da fazioni sostenute da potenti alleati esterni; con pulizia etnica e distruzione di un intero paese all’insegna della “guerra al terrore”; con bombardamenti di intere città nel palese scopo di creare milioni di rifugiati per destabilizzare Paesi della Nato e dell’Unione Europea. L’ulteriore radicamento del “Diritto dell’Umanità incontra, in questo quadro, opportunità e al tempo stesso ostacoli significativi. Vi sono realtà nelle quali evoluzione democratica, sensibilità culturali, impostazioni politiche convergono nella ricerca di strategie e strumenti normativi che rafforzino la tutela della persona umana e delle libertà fondamentali. Con enfasi diversa, queste tendenze sono percepibili nell’Unione Europea, in un certo numero di paesi suoi Associati, di paesi Africani, di un gran numero di paesi Americani, di diversi paesi Asiatici ed Est Europei. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli delle nette resistenze opposte per motivi “stato-centrici” e di sovranità nella stessa area OSCE, in Medio Oriente e in Africa. Con tutte le incertezze e le linee di frattura della storia dei Diritti Umani, il Diritto dell’ Umanità rappresenta in ogni caso la scelta vincente.