Cesi, Tempio di Adriano, 23 Aprile 2015
La correlazione tra crescita, competitività, innovazione da un lato e processi di internazionalizzazione dall’altro è stata da tempo rilevata attraverso osservazioni empiriche, analisi dei dati, modelli teorici.
Quanto la crescita della nostra economia richieda condizioni favorevoli alla internazionalizzazione delle imprese è parso chiaro assai prima della crisi finanziaria del 2008. Ma ancor più gli anni di crisi hanno evidenziato una performance considerevolmente superiore dei comparti produttivi ad elevato margine di internazionalizzazione, rispetto a quelli che ne sono rimasti ai margini. Si tratta quindi di una correlazione – quella tra prospettive di crescita e grado di apertura esterna della nostra economia – che merita un’attenzione prioritaria nel definire la politica economica del nostro Paese, sia nelle scelte immediate sia per quelle strutturali, di medio e lungo periodo.
A questo proposito mi sembra opportuno ricordare due articoli pubblicati negli ultimi mesi sul bollettino del Cesi, Il Sestante, dal Presidente Gaetano Rasi e dal Prof. Mario Bozzi-Sentieri.
Commentando le decisioni del G20 a Brisbane, il Prof. Rasi ha stigmatizzato la fuorviante genericità di un “policy mix” basato, per aree economiche e geopolitiche così eterogenee, da un lato su identiche politiche monetarie (es. QE Fed, Bce, e Banca del Giappone) e politiche fiscali espansive, e dall’altro su riforme strutturali che non possono certamente essere uguali per tutti. Le riforme della giustizia civile, del credito, dell’Amministrazione dello Stato, per fare degli esempi molto concreti, devono essere più urgenti e positivamente pervasive per noi che non per altri importanti partners europei, come la Francia o la Spagna.
L’altro spunto che mi sembra utile a legare sviluppo e processi di internazionalizzazione, riguarda le osservazioni del Prof. Bozzi-Sentieri sempre su Il Sestante, circa la necessità di una politica che dia valore ai “corpi intermedi”. Una politica ben diversa dalla sistematica avversione del Governo Renzi nei confronti delle istanze associative e sindacali. Intendiamoci, è un terreno che richiede una decisa volontà innovativa e riformatrice. Ma, come auspica Bozzi-Sentieri, riformare è ben diverso dal voler rendere sempre più marginali e irrilevanti i “corpi intermedi”. Si dovrebbe far leva sugli artt. 46 e 39 della Costituzione, per attuarli finalmente, in quella direzione innovativa che è incoraggiata dalle migliori esperienze di cui disponiamo in Europa, come l’inclusione delle forze sociali nella gestione delle aziende. E sono proprio alcune caratteristiche dei processi di internazionalizzazione in atto – pensiamo ad esempio ai “Contratti di rete” tra moltissime imprese ad alta propensione esportativa e innovativa – a segnalare le potenzialità di una più positiva interazione anche del nostro sistema produttivo con i “corpi intermedi”.
Alcuni dati che citerò, tra i moltissimi disponibili, danno la sensazione che due diverse Italie si siano sempre più chiaramente manifestate durante la lunga crisi iniziata nel 2008/2009. E un fondamentale spartiacque è rappresentato proprio dal diverso grado di internazionalizzazione.
Al di là di un’Italia in recessione profonda, con una flessione del PIL manifatturiero dell’8% tra il 2008 e la fine del 2014; con una perdita di 47.000 imprese in sei anni ed ancora di 5.700 lo scorso anno; al di là ancora di una caduta libera del valore aggiunto manifatturiero del 17% in cinque anni, c’è “Un’altra Italia”: un’Italia che mantiene e, in certa misura, accresce la sua competitività nei mercati esteri; grazie a quella che viene chiamata “internazionalizzazione complessa”, ai partenariati e nella cd “Catena globale del Valore”, alle reti d’impresa e alla rivitalizzazione di distretti e clusters produttivi, grazie all’impatto positivo sulla competitività delle aziende delle tecnologie verdi, dei nuovi processi produttivi legati alle stampanti 3D, o ancora grazie al crescente affermarsi di management sensibili alla “corporate social responsibility”.
È questa “altra Italia” ad aver continuato a rivelare durante tutto il periodo della recessione eccellenti “performance” all’estero: accrescendo i valori medi unitari dei principali prodotti manifatturieri esportati, e quindi migliorando in competitività. E non solo nei settori ad elevata qualità ma generalmente a basso contenuto tecnologico – le “4A” del Made in Italy, alimentari, abbigliamento, arredamento, automazione – ma migliorando soprattutto competitività nell’high-tech, come farmaceutica, ICT, aerospazio, elettronica, comparti aumentati di ben il 35% nei cinque anni di crisi.
Un primo essenziale dato che collega sviluppo e internazionalizzazione riguarda perciò il “New made in Italy”: tutto quello che rilancia la competitività delle nostre imprese attraverso ricerca, tecnologia, idee innovative, qualità. Vi sono analisi di grande interesse nell’ultimo rapporto Censis sulle “determinanti della crescita nel sistema d’impresa”: ebbene, otto “determinanti della crescita” su dieci riguardano l’impatto positivo di nuove strategie sulla qualità del prodotto e sull’internazionalizzazione delle imprese.
Un secondo dato che collega sviluppo e internazionalizzazione verte sulle filiere produttive, riarticolate attraverso i “Contratti di rete”, lanciati nel 2010. Le imprese che vi aderiscono sono passate in tre anni da poche decine a 9.000, per il 44% manifatturiere, e per il 36% nei servizi, con quasi 1.800 Contratti di rete stipulati. Le imprese manifatturiere “in rete” rivelano una propensione all’internazionalizzazione di circa il 50% superiore a quella delle imprese che non sono in rete.
Tutto ciò sta avvenendo nonostante il campanello d’allarme di un ridimensionamento della quota dell’esportazione italiana nel commercio mondiale, scesa tra il 2007 e il 2013 dal 3,6% al 2,8%.
Sull’altro versante nella realtà del nostro Paese si trovano comparti e aziende dipendenti in misura dominante dalla domanda interna, dalle forniture pubbliche, dall’apparato burocratico. Sotto il profilo territoriale vi è poi, come nota ancora il Censis, una “fascia mediana a rischio involuzione” con spopolamento di alcuni territori, invecchiamento della popolazione, scarsa propensione all’interscambio con l’estero. Nel suo complesso, il Mezzogiorno sembra allontanarsi ancor più dal resto del Paese, anche se alcune filiere, sparse a macchia, possono stimolare la ripresa, internazionalizzando e raccordando tra loro agricoltura, agroindustria e turismo.
Internazionalizzazione significa non solo esportare; significa anche e soprattutto attrarre investimenti in Italia, coì come insediare attività commerciali e produttive oltre confine. Sotto questo profilo, va rilevato che la propensione all’investimento produttivo all’estero è diminuita, in controtendenza rispetto alla rafforzata capacità esportativa dell’Italia.
Ne derivano tre elementi di debolezza che devono essere al centro di una strategia coerente di politica economica, fiscale, industriale, a livello nazionale quanto europeo, che ci consenta di cogliere, ma anche di orientare, le opportunità offerte dai negoziati economici globali e regionali, come Doha, TPP e TTIP. I tre elementi di debolezza sono i seguenti:
1) nonostante la nostra sia la seconda economia manifatturiera del Continente, l’internazionalizzazione produttiva dell’Italia resta considerevolmente più bassa di quella degli altri 4/5 principali Paesi Europei.
2) La seconda debolezza, è che il nostro stock di investimenti esteri rispetto al PIL è quasi la metà di quello tedesco e francese.
3) La terza debolezza riguarda il nostro posizionamento nella globalizzazione dei mercati per i prodotti intermedi. Secondo l’OMC più della metà del commercio globale dei manufatti e tre quarti dei servizi è costituito da prodotti intermedi. Necessitano strategie che attraggano in Italia le “Catene del Valore”, le cd “Global Value Chains”. Nella competizione vincerà sempre più non chi esporta, quanto chi immette nel prodotto la miglior combinazione di valore e di elementi immateriali.
Durante la crisi, sono state purtroppo le nostre imprese fornitrici di beni intermedi a essere più colpite. È proprio il diverso posizionamento nelle “Global Value Chains” a spiegare in buona misura il divario di crescita tra noi seconda economia manifatturiera nel Continente, e la Germania, nostra diretta concorrente proprio nella Catena Globale del Valore.
Dinanzi a un quadro così difforme come quello delle “due diverse Italie” che sembrano delinearsi nella loro diversa propensione a cogliere le opportunità della crescita a livello globale, la prima responsabilità tocca alle Istituzioni di Governo: con strumenti rapportati alle differenti caratteristiche del territorio, dell’innovazione e della conoscenza.
Si devono attivare pochi ma efficaci strumenti di politica industriale. Pensiamo all’abissale differenza tra gli interventi a pioggia, pre-elettorali, degli 80 euro e dei “tesoretti” del Governo Renzi, e gli interventi ben più strutturati del Governo Valls in Francia, per rilanciare investimento e innovazione non già con finanziamenti diretti di cattedrali nel deserto, bensì con piani di ammortamento accelerato e rimborsi delle spese di investimento effettuate dalle aziende. Un meccanismo proposto originariamente dall’opposizione UMP e ora fatto proprio da un pragmatico Governo socialista. Si devono abbattere procedimenti e controlli burocratici spesso privi di senso, che penalizzano le imprese.
Si deve soprattutto riformare la giustizia civile; e questa è la priorità più immediata se vogliamo davvero internazionalizzare il nostro sviluppo.
L’Economist sottolineava la settimana scorsa come Renzi abbia dedicato praticamente tutto il suo primo anno di Governo a riforme costituzionali ed elettorali mirate a blindare la sua base politica e di potere del PD, e soprattutto della componente interna cha a lui fa capo. Ma così facendo, dice ancora l’Economist, si è perso un anno nella riforma della giustizia civile, ancora ai primissimi passi, alla riforma fiscale – che non può ancora tardare data l’iniquità oppressiva e i danni che l’attuale sistema fiscale arreca all’economia e ai cittadini -, le misure di sostegno alle PMI, i rimborsi dei crediti vantati dalle imprese nei confronti delle Amministrazioni, la riforma della Pubblica Amministrazione.
E’ una valutazione ampiamente condivisa un po’ dappertutto nell’Area OCSE che l’attuale contesto economico internazionale rappresenti per paesi come l’Italia, una grande opportunità per inserirsi nel ciclo della ripresa mondiale.
Basso prezzo del petrolio, tassi di interesse quasi azzerati, cambio euro-dollaro alla parità, ci riportano a un periodo storicamente molto simile, quello del 1999 caratterizzato da un cambio euro-dollaro, tasso d’interesse e un prezzo dell’energia di tendenze molto vicine a quelle attuali.
Il raffronto fra la situazione attuale e quella di sedici anni fa, induce tuttavia a considerare le opportunità che abbiamo dinanzi con accresciuta cautela. Nonostante vi siano voci che ritengono già acquisito un effetto di positivo trascinamento sul nostro export, serve un accresciuto impegno nell’imprimere alla nostra politica economica delle svolte incisive e sostanziali, e non prevalentemente cosmetiche o fideistiche come quelle che continuiamo a sentire nelle declaratorie governative da un anno a questa parte.
Dobbiamo infatti prestare molta attenzione al fatto che nello scenario dell’economia mondiale di quindici anni fa, così simile a quello attuale, il volume di beni e servizi venduti dall’Italia all’estero è sì inizialmente aumentato del 20%; ma si è poi ridotto nei tre anni successivi non appena il deprezzamento dell’euro sul dollaro ha provocato un aumento dei prezzi interni e di quelli all’export, deteriorando la competitività dei nostri prodotti.
La mancanza di flessibilità del mercato italiano e la tendenza di gran parte delle aziende ad adeguare i prezzi invece di migliorare la qualità e di investire in produttività hanno praticamente azzerato quell’iniziale effetto di stimolo derivante da un cambio favorevole.
E’ così avvenuto che mentre per la Germania ed altri grandi Paesi manifatturieri europei nei primi anni 2000 il volume dell’export ha continuato a crescere, per l’Italia c’è stata una frenata: il nostro export ha registrato una crescita inferiore alla media europea, il reddito italiano è aumentato mediamente dell’1,7% all’anno contro il 2,2% nell’Eurozona, nonostante una domanda interna in Italia più sostenuta di quella dell’Area euro, proprio per effetto di una politica fiscale generosamente espansiva, e ben diversa da quella ulteriormente penalizzante per la domanda interna che abbiamo sotto gli occhi con il Documento di Economia e Finanza del Governo.
Rispetto a quindici anni fa abbiamo attualmente un contesto competitivo peggiorato a causa di un debito pubblico nettamente più alto che riduce fortemente le possibilità di operare sul versante della spesa pubblica; ed è un contesto peggiorato anche perché dobbiamo convivere con una concorrenza internazionale sempre più agguerrita.
Non è un caso che tutte le principali organizzazioni internazionali economiche prevedano l’Italia come fanalino di coda nella ripresa dell’Eurozona insieme alla Grecia.
Guardando agli aspetti strutturali della nostra politica economica e fiscale si deve:
I) in primo luogo ridare credibilità al quadro di riferimento statistico contenuto nel Documento di Economia e Finanza e nel Programma Nazionale di Riforme, cioè a quel Piano Economico Pluriennale che deve assicurare una crescita compatibile con gli impegni gravosi che il Governo ha ritenuto di riconfermare nel confronti di Bruxelles, e soprattutto di Berlino, nonostante le ben maggiori concessioni fatte dall’Europa ad esempio ad un partner importante come la Francia. Statistiche pubblicate in questi giorni dimostrano come le previsioni ufficiali che l’Italia continua a formulare sull’andamento del PIL tra il 2011 e il 2014 rivelino uno scostamento fra sogni e realtà pari a ben 6,7 punti percentuali di PIL, il che vuol dire dell’1,7% annuo: un incredibile errore previsionale, che risulta difficile attribuire a mera distrazione o incompetenza, pari a quasi 40 miliardi di euro all’anno in più di quello che si è avverato. Mentre per i Paesi come la Francia e la Germania il divario fra previsioni e realtà è stato la metà del nostro nonostante la maggior dimensione economica di questi due Paesi rispetto all’Italia;
II) in secondo luogo una priorità assoluta per il nostro Paese è una “politica europea dell’energia”. Non tanto perché si possa essere intimoriti dai “condizionamenti politici” del gas russo. Ma perché i Russi ci fanno pagare il loro gas ben al di sopra della media europea: una “tassa penalizzante” per le nostre aziende esportatrici, oltre che per le nostre tasche. La Commissione europea ha – finalmente! – allo studio la creazione, come primo passo, di un’Agenzia che tratti gli acquisti di gas a nome di 28 Stati membri, creando così un ben diverso e assai più forte “mercato della domanda” rispetto al monopolio Russo dell’offerta. I prezzi del gas diventerebbero più vantaggiosi e uniformi anche per gli italiani che ora pagando di più. Non è affatto chiaro quanto il nostro Governo stia effettivamente dando impulso, e non contrastando per motivi incomprensibili, la creazione dell’Unione Europea dell’Energia;
III) il terzo aspetto riguarda l’enorme pressione fiscale sulle aziende e sulle famiglie, in ulteriore crescita nonostante le dichiarazioni rassicuranti che continuiamo a sentire. Basti citare il prelievo totale a carico delle famiglie delle diverse imposte sulla proprietà immobiliare, passato dai 37,9 miliardi nel 2011 ai 50,1 miliardi nel 2014 con un aumento di circa il 10% nei dodici mesi del Governo Renzi;
IV) il quarto aspetto riguarda quello che dovrebbe essere veramente considerato il “male assoluto” non soltanto per il nostro sistema economico, ma per una consistente fetta di società civile del nostro Paese: la corruzione, le sue diramazioni nella politica, nell’impresa, nell’amministrazione attraverso comportamenti individuali e collettivi che oramai la tollerano e la alimentano in modo generalizzato e trasformano il Paese in una ragnatela inestricabile e collusioni con il malaffare e con la criminalità organizzata. Qualche tempo fa il New York Times giornale tendenzialmente amico degli italiani, ha così bollato le ultime vicende: “Nuovo scandalo di malavita stordisce PERFINO GLI ITALIANI” per poi dire “persino in un Paese dove la corruzione viene ritenuta acquisita come parte della vita quotidiana, le rivelazioni hanno stordito i cittadini, con un impressionante serie di incriminazioni di politici attraverso l’intero spettro…L’ESEMPIO di una situazione che ha portato l’indebitamento italiano ai più alti livelli in Europa”. Così la stampa internazionale: corruzione uguale indebitamento record, e violazione di tutti i parametri che promettiamo all’Europa di rispettare, inutilmente.
Il Governo ci sta cautelando? Neanche per sogno. Basti un esempio. La nuova legge sulla cooperazione allo sviluppo, “venduta” mediaticamente come un grande risultato dal Governo, viene già definita da chi se ne occupa come “la nuova Bengodi della licitazione privata”: dove licitazione privata significa contratti senza gara, magari con aziende come l’ormai famosa Cooperativa 29 giugno o il Consorzio Eriches 29. La nuova legge sulla cooperazione, che privatizza le procedure di assegnazione dei contratti, è stata fatta approvare dal Governo Renzi in tempi brevissimi.
E le misure legislative annunciate contro la corruzione? Alfredo Mantovano che da ex Magistrato e uomo di Governo ha una grande esperienza in questo campo, ha lucidamente scritto che anche con un minimo di pena a 6 anni quasi nessun corrotto finirà in carcere, perché vi é un tale insieme di benefici nel codice penale e nell’ordinamento penitenziario che anche con una sentenza a sei anni di reclusione si può evitare di andare in cella anche un solo giorno. Durante i Governi Letta e Renzi l’entità di questi benefici si é accresciuta, non certo diminuita. Ecco dove trova incoraggiamento e sostegno il mondo del malaffare.
Gli europei sanno bene che metà delle riforme varate nell’ultimo triennio di Governi non scelti dagli elettori sono inattuate per almeno la metà, e scadute per almeno un quarto di loro. E sanno bene che quello che si sta facendo è del tutto insufficiente. Il Commissario anticorruzione ha poteri, per stessa ammissione di Cantone, del tutto insufficienti. La legge sull’allungamento dei termini di prescrizione è rimasta nel cassetto per sei mesi, ora è dovuta riuscirne, ma in termini edulcorati; i poteri delle Regioni restano intatti, e continuano nell’allegra finanza; gli appalti continuano a essere terreno di conquista per i corrotti. E’ causa della incapacità a sconfiggere la corruzione se Expo inizierà come un cantiere ancora aperto, sotto gli occhi di una Comunità internazionale che ci aveva affidato questo impegno e regalato questa grande occasione dal marzo 2008. E’ sempre a causa dell’orrendo cancro della corruzione se l’Aquila continua ad essere una città distrutta dopo sei anni dal terremoto del 2009 con solo il 10% dei cantiere aperti rispetto a quelli che dovrebbero essere non solo iniziati ma già ultimati. Per descrivere lo sprofondamento nel quale la corruzione ha portato gli interventi di ricostruzione e le grandi opere pubbliche nel nostro Paese, basti pensare che nel 1976, dopo il terremoto in Friuli assai più devastante di quello dell’Aquila, con il triplo delle vittime, 85 Comuni gravemente danneggiati o distrutti e centomila sfollati in sei anni la ricostruzione era stata pienamente completata quasi all’80%. All’Aquila anche gli interventi abitativi realizzati sono ormai in buona misura inagibili.
Su questo sfondo così impegnativo per gli interventi strutturali che l’Italia deve intraprendere credo sia particolarmente importante la voce delle categorie produttive più coinvolte nei processi di internazionalizzazione, categorie particolarmente sensibili alle riforme che premino l’innovazione, la ricerca e la formazione dei giovani quali motori della competitività e della crescita.