Camera dei Deputati, 12 Giugno 2015
Nel “Grande Mediterraneo” le mutazioni innescate dalle Primavere Arabe hanno trovato un Occidente impreparato ad affrontare le minacce che si stavano addensando sulla sua sicurezza. Alcune scelte sono parse tardive e carenti di visione strategica. Abbiamo ricercato compromessi su valori di fondo, nella speranza che alcuni attori regionali e globali privilegiassero una linea di coinvolgimento responsabile, anziché rimettere in discussione sovranità statuali, equilibri interetnici, stabilità regionali, rispetto delle minoranze. Le distrazioni dell’Occidente, le contraddizioni nel mondo Arabo, l’atteggiamento più antagonista che cooperativo della Russia, hanno lasciato campo libero a profonde “mutazioni” delle crisi in atto, aggravando il confronto settario all’interno dell’Islam con forme nuove e ancor più diffuse di fondamentalismo.
Appare ineludibile una diversa, pubblica consapevolezza delle sfide che abbiamo di fronte, delle politiche e della coesione necessarie ad affrontarle.
Svolgerò quindi alcune osservazioni sulla “distrazione dell’Occidente”, sulla correlazione Isis/Iran, sulle trasformazioni delle crisi in Siria, Iraq e Yemen, sulla questione libica e traffico di migranti.
I. La distrazione dell’Occidente
L’Eurasia Group è un importante gruppo americano di consulenza internazionale guidato da Ian Bremmer. Ha tra i propri clienti alcune tra le maggiori multinazionali dell’energia, della progettazione di infrastrutture e dei servizi.
Nel settembre 2011, quasi un anno dopo il disperato gesto di Mohammed Bouazizi, l’Eurasia Group pubblicava la lista dei principali fattori di rischio da tener d’occhio per la stabilità regionale e globale. Nessun Paese Arabo entrava nei “top risks”.
Alcune “costanti” per la criticità dell’intera regione erano opportunamente menzionate nel Rapporto dell’Eurasia Group, come il programma nucleare iraniano. Ma i grandi sconvolgimenti politici e sociali in Medio Oriente, di cui si sarebbero dovuti avvertire eloquenti segni premonitori, restavano semplicemente fuori dal radar.
Ancora nell’autunno di quel 2011 le Capitali europee e Washington stentavano a cogliere la portata di un’evoluzione profonda e già in quel momento inarrestabile nel mondo Arabo.
C’erano stati lunghi periodi di incubazione del dissenso e della rivolta. Il radicamento dell’Islam politico e le sue deviazioni radicali venivano da molto lontano. E segnali precisi che anticipavano una contestazione diffusa e durevole nel tempo si coglievano sul web sin quattro o cinque anni prima di Piazza Tahrir.
In Iran “l’onda verde” dei riformisti e dei giovani aveva rotto gli argini già nel 2009, per poi essere repressa con sanguinaria violenza, dopo un’elezione Presidenziale scippata. Il Grande Mediterraneo, si presentava sempre più come un esteso “arco di crisi” da Gibilterra alla Mesopotamia, caratterizzato da dinamiche inedite sul piano demografico, migratorio, della radicalizzazione fondamentalista, del terrorismo. Lo sfondo erano, e restano, economie e sistemi politici ossificati; sopravvissuti alla fine dei blocchi e persino a quella che Samuel Huntington chiama la “terza ondata della Democrazia” dopo gli Anni 70, dal Portogallo all’Indonesia, dall’Africa, all’America Latina.
L’Europa e l’America, ma non solo loro, avevano preferito sottovalutare i segni premonitori dei profondi, rapidissimi mutamenti del 2011 perché avevano continuato a contare sul fatto che i Leaders Arabi erano riusciti a mantenere una certa stabilità facendo di volta in volta leva sul panarabismo, sulla mobilitazione anti israeliana, sul “modus vivendi” di sia pur impopolari accordi di pace. Si riconosceva che la stabilità era fragile, e costava molto: una stabilità ottenuta con repressioni violente di Movimenti Islamisti, come i Salafiti e la Fratellanza Musulmana; con i molti sforzi dei Governi Sunniti soprattutto nel Golfo per trovare contrappesi a quel “risveglio scita” portato dalla rivoluzione Komeinista prima, dall’invasione dell’Iraq nel 2003, e dal divampare del confronto Sunnita-Scita .
L’episodio dei “global risks” individuati nel 2011 da Eurasia Group non è certo un caso isolato di “distrazione” occidentale.
Ancora nel gennaio 2015, quest’anno, il Rapporto “Global Risk” presentato a Davos dal World Economic Forum attribuisce al “collasso delle strutture statali”, alla “dissoluzione della Governance nazionale”, agli “attacchi terroristici”, alle “migrazioni su larga scala” – tutti fenomeni fortemente destabilizzanti che originano nel Mediterraneo e in Medio Oriente – un impatto globale e un indice di probabilità nettamente inferiore a quello di pandemie, shock petroliferi, crisi fiscali e disoccupazione.
Forse ancor più interessante notare che solo nel 2015 il World Economic Forum inserisce – “per la prima volta dal 2007” – tra i primi cinque “rischi globali probabili” il “collasso delle strutture statali”, e la “dissoluzione della Governance nazionale”. Per la prima volta il World Economic Forum, Gotha della geopolitica e della finanza mondiale, riconosce la gravità di questi “rischi globali”; ma lo fa con un ritardo di ben quattro anni dalle Primavere Arabe, tre anni dopo l’inizio della guerra civile in Siria, tre anni dopo la disgregazione delle strutture statuali in Libia, e almeno un anno dopo il propagarsi dell’Isis da Siria/Iraq a diversi altri punti dell’arco di crisi mediterraneo.
Se non vale dar troppo peso indici previsionali costruiti su scenari tanto complessi, si può tuttavia constatare una perdurante sottovalutazione delle crisi che abbiamo alle porte di casa. È come ci fosse un freno psicologico, non di rado impregnato di ideologismi, nell’ affrontare seriamente i temi più vitali per la nostra sicurezza. Un atteggiamento che caratterizza, e distrae, l’opinione pubblica e la politica di molti paesi Europei e Atlantici, ma non certo l’atteggiamento dei Governi e dell’informazione di altri “stakeholders”, soprattutto Russia, Iran, Cina. Credo non si debba trascurare l’asimmetria tra un “West” riluttante a fare entrare nel discorso pubblico i grandi temi della sicurezza, e un “Rest” dove la sicurezza viene brandita come strumento di legittimazione nazionalista, di consenso popolare, di protagonismo regionale e globale.
II. Guardare l’Isis senza vedere l’Iran.
La conferenza del 3 giugno a Parigi sull’Isis ha sottolineato l’esigenza della riconciliazione in Iraq, della partecipazione Sunnita al Governo, del riarmo delle tribù Sunnite in funzione anti Isis.
Il Primo Ministro al-Abadi ha cercato di addebitare all’insufficiente sostegno occidentale i recenti rovesci militari, come a Ramadi. Ma ha dovuto ascoltare critiche nette, francesi e di altri Ministri – ma non mi sembra purtroppo da parte dell’Italia – per la sua evidente intenzione di proseguire le politiche settarie ereditate dal suo predecessore, completamente in linea con i desiderata dell’Iran. Otto anni di assoluto dominio scita-iraniano in Iraq scoraggiano i Sunniti iracheni dal prendere le armi contro l’Isis, e fanno sentire le tribù dell’Anbar e di Nineveh sempre più emarginate e in pericolo. Persino alla Conferenza di Parigi al-Abadi non ha potuto o voluto impegnarsi in una direzione diversa, che pure gli è stata formalmente richiesta.
D’altra parte, appena prima della Conferenza di Parigi, sull’altro fronte, quello della guerra civile siriana, il Presidente Rouhani riceveva il Presidente del Parlamento siriano Mohammad al-Laham. In dichiarazioni riportate dall’Agenzia iraniana Irna, Rouhani si esprimeva così: “L’Iran sosterrà il Presidente Bashar al-Assad sino alla fine … non dimentica i suoi obblighi morali verso il Governo siriano”. Chiarendo così che le crescenti difficoltà militari incontrate dal regime siriano saranno colmate dagli aiuti iraniani.
Per parte sua, il comandante delle Forze speciali Quds iraniane, il Gen. Qasem Soleimani, dopo una ricognizione nella regione di Latakia, roccaforte Alawita, ha ammonito la comunità internazionale che “ci saranno sorprese”. Secondo l’Institute for Near East Policy di Washington, il reclutamento di combattenti Sciti per la Siria sta aumentando esponenzialmente.
Sarebbero da tempo operativi in Siria diecimila miliziani iracheni Sciti e circa settemila Hezbollah libanesi. Agenti iraniani in Afghanistan, Pakistan e in Asia Centrale starebbe reclutando a pieno ritmo, anche sul web, tra le comunità Hazara e scite, offrendo compensi economici.
Il rapporto tra l’Iran scita e gli Assad precede la rivoluzione Khomeinista. Era stato proprio l’Imam libanese Scita Musa al-Sadr a sostenere l’ascesa al potere di Hafiz al-Assad di fronte ai conservatori Sunniti, “certificando” con una Fatwa che la corrente Alawita di Assad apparteneva al “mainstream” degli Sciti.
Tuttavia Hafiz al-Assad aveva tenuto a coltivare autorevolezza e centralità della Siria nei complessi giochi di potere regionale. Con Bashar Assad il rapporto con l’Iran diventa subalterno e ancor più dipendente via via che la criminale repressione alimenta, volutamente, il Jihadismo Sunnita e l’Isis.
Il contrasto all’Isis diventa così l’occasione perfetta per ulteriori iniziative iraniane, e non soltanto nel mondo Scita. Siccome tra i proxies di Teheran si annoverano organizzazioni Sunnite come Hamas, Islamic Jihad a Gaza, e i rapporti di Teheran con elementi di Al Qaeda e con diversi gruppi Talebani sono ambigui sin dagli anni ’90, la macchia d’olio dell’influenza iraniana tende a espandersi anche a forze fondamentaliste Sunnite che vedono male un “Califfato” che si autoimpone dall’esterno. D’altra parte la visione millenarista e rivoluzionaria propria alla teocrazia iraniana fa sì che essa si ponga da sempre come “guida” di tutto l’Islam. Nell’agosto 2012 Teheran aveva colto l’occasione del Vertice NAM per dimostrare la sua vicinanza ai Fratelli Mussulmani da poco arrivati alla Presidenza in Egitto. Morsi si rivelava però un ospite difficile, criticando duramente Assad in diretta televisiva con grande imbarazzo iraniano.
Da quando la “guerra all’Isis” è stata lanciata lo scorso agosto dalla coalizione arabo-occidentale, di fatto insieme all’Iran e alle forze militari di cui tale Paese ha il controllo a livello regionale, e da quando è iniziata una campagna di bombardamenti contro l’Isis, inevitabilmente con gravi “danni collaterali”, la situazione non fa che peggiorare; le vittime civili non fanno che aumentare, le ondate di sfollati e di profughi ad accrescersi, le distruzioni, i foreign fighters ad accorrere sempre più numerosi nei teatri di queste guerre, le affiliazioni all’Isis a proliferare.
III. Le “mutazioni” dei conflitti intra-statuali in Siria, Iraq, Yemen.
Non eravamo stati in pochi i primi giorni d’agosto dello scorso anno, a sottolineare la pericolosità di una strategia militare disconnessa da una precisa e impegnativa intesa politica, da ottenere prima e quale essenziale condizione di qualsiasi sostegno militare occidentale al Governo iracheno. Questa dovrebbe essere la linea dell’Italia e dell’Europa. Dobbiamo sottolineare con decisione, non bastano gli incisi di un comunicato, che occorre un”intesa politica per l’Iraq e per la Siria, senza la quale i bombardamenti occidentali in Siria e in Iraq rischiano non solo di essere insufficienti ad estirpare lo Stato Islamico, ma diventano l’inevitabile dimostrazione di un “allineamento”, e perfino di una vera “alleanza”, con un fronte scita guidato da Teherana, e dominato da fondamentalisti Sciti che possono essere pericolosi almeno quanto i fondamentalisti Sunniti.
Dalla Conferenza di Parigi del 3 giugno, ancora una volta, è uscito un comunicato senza alcun cogente progetto politico.
Le guerre intra-statuali in Siria, in Iraq, e ora anche in Yemen, hanno in comune tra loro la “mutazione” di conflitti a carattere politico-religioso, che danno vita a fenomeni che si chiamano Isis in Iraq e Siria e Houtis e Al Qaeda in Yemen. In tutti e tre i casi il principale alimento alle mutazioni è venuto da sistematico settarismo dell’Iran, contrastato essenzialmente dai Paesi del Golfo.
Queste tre crisi devono essere risolte prima che il crollo di assetti regionali del XX secolo basati su realtà statuali multietniche lasci il campo a una vastissima conflagrazione tra mondo scita e mondo Sunnita.
Spetta ai Paesi Occidentali e alla Lega Araba, che si era impegnata con sanzioni e missioni di osservatori per fermare la criminale violenza del regime siriano, subordinare il loro sostegno militare a Baghdad e a Damasco alla creazione immediata di Governi di Unità Nazionale, garantiti dai Paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Parigi. Il funzionamento di tali Governi dovrebbe essere ugualmente garantito sulla base dei principi e delle tutele costituzionali che pur esistono nell’ordinamento iracheno, ma che sono del tutto disattese; e che per lo Yemen sono state già ripetutamente definite dalla Comunità internazionale. Sono tali principi e tutele a dover essere elemento costitutivo di una urgente transizione in Siria, in sintonia d’altra parte con le intese di Ginevra I e Ginevra II.
Una posizione ferma nei confronti dell’Iran e dei sui disegni nell’intera Regione è ugualmente essenziale. I segnali che noi europei e italiani continuiamo ad inviare a Teheran sono, in realtà, di incoraggiamento a proseguire nelle ambizioni regionali nelle visioni messianiche proprie al regime teocratico e alle componenti fondamentaliste che lo condizionano.
Dobbiamo invece essere chiari sul nostro sostegno al pluralismo politico, ai diritti umani, alle aspirazioni di un mondo giovane e istruito sempre più insofferente all’oppressione della teocrazia. Sono queste le linee di politica estera che dovrebbero guidare una seria azione per la stabilità di una regione al momento dominata da un inaccettabile settarismo, che non dobbiamo assolutamente condividere.
In questo quadro dovremmo riconoscere alla Russia di essere un fondamentale “stakeholder”. Non si tratta di un auspicio formale, né di illudersi che sia per ora immaginabile riattivare con Mosca quel partenariato che l’Italia ha incoraggiato anche negli ultimi anni, e che riuscivamo ancora a tenere in atto nel 2012/2013. Si tratta piuttosto di motivare la Russia nella transizione siriana e irachena. Vi sono premesse positive su altri terreni della collaborazione strategica russo-americana: il nuovo Start e le verifiche funzionano, nonostante l’ultima risposta negativa russa alle proposte di Obama di ulteriore riduzione di un terzo dell’arsenale atomico; la collaborazione antiterrorismo è un altro esempio.
IV. Libia e migrazioni.
L’inviato speciale dell’Onu, Bernardino Leon, sostenuto da parallele iniziative europee e Arabe, è da oltre un anno alla ricerca di un’intesa tra i due principali schieramenti: Alba e le componenti islamiste di Tripoli da un lato, Operazione Dignità in sostegno del Parlamento trasferitosi a Tobruk, dall’altro. Due schieramenti che si frammentano e incrociano con una pluralità di milizie locali, fazioni, personaggi che cambiano per convenienza tattica o per mero calcolo personale. Vi è, molto preoccupante, l’elemento Jihadista, con Ansar al-Sharia e Isis.
L’attivismo diplomatico non è certo mancato. Ne sono state cornice le riunioni euromediterranee “5+5”, conferenze internazionali, le discussioni Ue a Bruxelles e Onu a New York.
La febbre è ancora cresciuta per il sovrapporsi, alla crisi di per sé già molto grave della quasi-dissoluzione dello Stato libico, di altri tre immediate criticità:
1) il decuplicarsi in soli pochi mesi del traffico criminale di migranti verso le nostre coste, con ripetute tragedie in mare, anche dopo quella di Lampedusa;
2) il radicarsi dello Stato Islamico a Derna, con collegamenti jihadisti a Tripoli e Sirte.
3) il collegamento ormai provato tra criminalità coinvolta nel traffico dei migranti e organizzazioni terroristiche sulla sponda libica, e in Italia un parallelo collegamento tra organizzazioni come Mafia Capitale e immigrazione clandestina.
La situazione libica condensa così una serie di problemi che devono avere risposta immediata, e altri che devono fare oggetto di politiche a medio, e a lungo termine.
Nell’immediato, la nostra sicurezza tutelata nel rispetto dell’ordinamento internazionale e deve esserci consapevolezza delle facoltà che esistono per agire a titolo nazionale con misure di contrasto al traffico dei migranti, quando un Paese subisce la minaccia di organizzazioni criminali e terroristiche. Va detto chiaramente che vi sono azioni di autotutela perfettamente legittime anche se indipendenti da pronunce di un Consiglio di Sicurezza spesso paralizzato da interessi nazionali dei cinque Membri permanenti. Ed è poco comprensibile che da due anni si stia solo discutendo come prevenire, con azioni concrete, l’orribile traffico di esseri umani e le tragedie che esso provoca perché “aspettiamo l’Onu” o “aspettiamo l’Ue”. A meno che “l’andare a New York” non costituisca un modo per riferire sempre la responsabilità politica di decisioni difficili alle istanze sovranazionali.
Nel medio e nel lungo periodo vi è la necessità di promuovere a livello Europeo: una normativa comune sul diritto d’asilo; una ripartizione degli oneri di accoglienza tra i Paesi Membri per quanti hanno diritto allo status di rifugiato; regole condivise e cogenti sui rimpatri; accordi con i paesi di provenienza finanziamenti ad hoc nei programmi di Partenariato Mediterraneo.
Sul piano nazionale, sono improcrastinabili politiche e interventi legislativi che rispondano a un disegno coerente di inserimento delle comunità immigrate nella realtà sociale, culturale, economica del nostro Paese. Il rispetto della legalità, dei percorsi di scolarizzazione, dei principi costituzionali di libertà e uguaglianza mi sembrano irrinunciabili. Così come la lotta all’intolleranza, alla discriminazione, al fondamentalismo.
Paesi europei che hanno una centenaria tradizione di rapporti con l’Islam sul proprio territorio, come l’Austria, hanno adottato leggi sul riconoscimento della libertà religiosa e dei culti, che meritano di essere valutate anche come riferimento per altri in Europa.
La stabilità e il consolidamento istituzionale della Libia rappresenta una delle priorità in assoluto più elevate per l’Italia. Il ginepraio di conflitti nel quale il Paese sta affondando è conseguenza dell’interruzione del processo costituzionale e della sempre più condizionante entrata in scena delle forze islamiste in tutto il Nord Africa a fine 2012, un anno dopo l’uccisione di Gheddafi. Anche in Libia si è perso troppo tempo. Il superamento della crisi libica richiede enorme impegno: diplomatico, di concertazione internazionale, di risorse finanziarie e umane, e di assistenza militare e di sicurezza. Ridare prospettive a un Paese fonte di tensioni destabilizzanti è necessità vitale per l’Italia. Ancor più lo è per motivi economici, di approvvigionamento energetico, di presenza delle nostre aziende, oltre che per i legami storici tra Italia e Libia.
Mentre proseguono i tentativi dell’Onu di portare le diverse fazioni a un Governo di unità nazionale, sul terreno si manifestano segni di evidente logoramento. Diversi sono i casi di tregue locali, ma in una grande instabilità. Gli scontri hanno compromesso o danneggiato quasi tutti i porti e gli aeroporti. Le alleanze si capovolgono facilmente come quella tra Zintane e Sobrata, durante la rivolta contro Gheddafi, diventata ostilità, e poi ancora tregua. Vi sono quindi veti reciproci, delegittimazioni, indisponibilità ad accettare il dialogo proposto dalle Nazioni Unite. La presenza dell’Isis tende a non essere enfatizzata da alcuni interlocutori libici. Ma induce altri a maggior ragionevolezza.
La ripresa di un “percorso costituzionale” può solo poggiare su un’agenda condivisa tra i paesi Arabi, e tra gli europei, anziché su concorrenzialità e giochi di influenza. Questo è l’ambito nel quale il nostro Paese viene sollecitato da tempo, dagli Usa e da alcuni partners europei, ad esercitare una “leadership” negoziale .
Si tratta di fare emergere, dalla attuale situazione di blocco, una figura di alto livello e significato per tutte le diverse componenti religiose, politiche e tribali del Paese, che possa garantire dall’interno del Paese quel percorso che deve necessariamente partire dalla realtà libica.