Camera dei Deputati, Palazzo S Macuto – Via del Seminario 76
Roma, 23 ottobre 2018
I) Immigrazione e sicurezza nazionale.
La politica dell’immigrazione influenza profondamente il futuro dell’Europa. E’ soprattutto sulle politiche migratorie che i leader e le élites del continente hanno perso la fiducia dei propri cittadini. Una fiducia che non sarà certo ricomposta dalle dispute su illusori espedienti immediati di cui Bruxelles è stata sinora prodiga. L’UE deve cambiare approccio. La priorità deve essere quella di rassicurare i cittadini adottando una politica sui migranti che ottenga un sostegno sufficientemente ampio, e sia conforme ai valori europei.
Obiettivo deve essere quello della ”immigrazione sostenibile”.
Le analisi, i convincimenti e le posizioni politiche che riguardano l’interdipendenza tra fenomeni migratori e sicurezza nazionale costituiscono da diversi anni un motivo di forte contrasto tra i partiti, nel mondo dell’informazione e nell’opinione pubblica.
Si tratta infatti di un terreno nel quale agiscono fattori economico-sociali, etnici, culturali e religiosi. Influiscono il fallimento generalizzato delle politiche di integrazione per Comunità che sono rimaste emarginate dal progresso economico dei Paesi che le ospitano. Pesano negativamente ideologie e orientamenti religiosi che rifiutano i valori di libertà, i diritti della persona, le leggi dei Paesi ospitanti.
Lo tsunami migratorio negli anni dei Governi Renzi – Gentiloni, ha riversato sulle nostre coste quasi un milione di migranti. Essi vanno ad aggiungersi ai cinque-sei milioni di stranieri residenti legalmente e non nel nostro Paese. Cresce rapidamente il numero di bambini non accompagnati, di uomini in giovane età, spesso minorenni. Centinaia di migliaia di giovanissimi, entrati in Italia come “illegali”, sembravano destinati a ottenere rapidamente la cittadinanza italiana qualora fosse entrato in vigore l’iter ultrasemplificato dello Jus soli.
Il numero complessivo degli stranieri in Italia, legali e non, è stimabile attorno al 10% dell’intera popolazione sul territorio nazionale. Tra questi, le Comunità Musulmane crescono rapidamente sia per motivi demografici che per effetto di una “politica della porta aperta”. L’insieme di tutti questi elementi, a giudizio di quanti hanno studiato a fondo il fenomeno della radicalizzazione e del fondamentalismo islamico negli altri maggiori Paesi europei, potrebbero portare in pochi anni l’esperienza italiana verso quelle già sperimentate in Gran Bretagna, Francia e Belgio.
II) Fatti e narrative.
L’accelerazione degli sbarchi sino al 2017 ha avuto luogo sullo sfondo di una parallela accelerazione di episodi terroristici in Europa e nei Paesi a noi vicini nel Mediterraneo.
Sino al marzo 2015, quando un attacco al museo tunisino del Bardo provocava quattro vittime italiane, con la prova che un terrorista, e probabilmente l’organizzatore dell’attacco, Abdel Majid Touil aveva viaggiato in un barcone di clandestini dalla Libia a Porto Empedocle senza essere individuato dalla Polizia italiana nonostante si trattasse di un ricercato, il Governo italiano si era trincerato dietro la tranquillizzante versione che “i terroristi non viaggiano tra i migranti”.
Una tesi che il Ministero dell’Interno continuava ad affermare anche dopo la richiesta di estradizione tunisina contro Abdel Majid Touil. Di fatto, sino alla tragedia del Bardo, chi si fosse azzardato a affermare che il traffico di migranti poteva essere utilizzato da organizzazioni criminose sulla rotta Mediterranea e Balcanica anche per favorire i terroristi, o che radicalizzazione e estremismo riguardassero anche alcuni ambiti delle Comunità Musulmane in Italia, e non soltanto quelli di altri Paesi europei, veniva prontamente bollato come “islamofobo”, e accusato di strumentalizzare le ansie del pubblico per finalità elettorali. Un orientamento ampiamente condiviso dai membri dei Governi della scorsa legislatura, da molti intellettuali e media e dalla galassia di organizzazioni umanitarie attive nell’ospitalità ai migranti.
Negli episodi che hanno colpito dal 2015 Francia in poi, Germania, Inghilterra, Belgio, Tunisia, Bangladesh, Iraq, Siria, si sono ripetuti decine di casi di terroristi transitati dall’Italia, o nati in Italia. Peraltro il principio di un collegamento tra minaccia terroristica, radicalizzazione e immigrazione ha molto stentato ad affermarsi. E’ persino passata in secondo piano, almeno all’inizio, durante il Governo Renzi anche l’accresciuta minaccia derivante da uno Stato Islamico insediatosi a Sirte nel 2014 con proclami di sfida verso l’Italia.
Sin dal 2015 i sondaggi Pew nei dieci principali Paesi europei segnalavano invece una netta maggioranza di cittadini convinti che l’immigrazione incontrollata accrescesse la minaccia terroristica.
L’appello rivolto spesso ai leader europei era stato di concentrarsi sulla corretta informazione, di creare consapevolezza delle modalità che portano all’estremismo e alla radicalizzazione, della necessità di un approccio diverso nella risposta al fondamentalismo islamico.
Ma una narrativa riluttante all’affermazione dei valori costituzionali del nostro Paese non ha fatto altro che incoraggiare voci più radicali a diffondere il loro messaggio: quello che siamo noi stessi i primi a dubitare dei nostri principi e della solidità delle nostre istituzioni. Ogni volta che scuole e insegnanti si sono mostrati riluttanti ad affermare i valori dell’Europa, come accaduto in scuole francesi e belghe dopo i massacri del 2015, gli islamisti più radicali e gli estremisti hanno vinto. Lo stesso è accaduto quando ai livelli più alti delle Istituzioni e nel mondo politico si sono voluti nascondere i simboli della nostra cultura occidentale e della Cristianità per compiacere i visitatori di Paesi Musulmani. Se il pubblico fosse adeguatamente informato su strategie, collegamenti, doppiezze e minacce nei processi di radicalizzazione, il coinvolgimento e il sostegno a piani d’azione concreti nell’educazione e nella scuola, nell’antiterrorismo, nei programmi economici e sociali per le Comunità immigrate, sarebbe sicuramente più vasto e vigoroso.
III) Proposte legislative.
Verso la fine della passata legislatura veniva presentata al Parlamento il disegno di Legge D’Ambruoso su “Misure per prevenire la radicalizzazione e l’estremismo jihadista”. Si trattava di un programma di formazione per gli operatori di Polizia, della creazione di un sistema di informazione integrato tra tutte le rilevanti Amministrazioni dello Stato ai diversi livelli, di Governi locali e scuole, dell’adozione di linee guida obbligatorie, di programmi online tra studenti e insegnanti , di misure nel mercato del lavoro, dell’adozione di un Piano Nazionale di azione per prevenire la radicalizzazione nelle prigioni e incoraggiare la reintegrazione sociale dei detenuti. Per diciotto mesi, mentre erano in piena espansione i fenomeni di radicalizzazione, in Europa e in Italia, il disegno di Legge è rimasto nei cassetti e è evaporato alla fine della legislatura. Alcune misure -è vero- erano state adottate dal Ministro dell’Interno Minniti per carceri e internet, ma anche in quelle misure erano assenti provvedimenti per contrastare veramente i processi di radicalizzazione nelle Moschee e in centinaia di luoghi di culto non riconosciuti.
Il contrasto all’estremismo violento, quale forma di prevenzione del terrorismo, è un preciso impegno di tutti gli Stati Membri delle Nazioni Unite, contenuto nella Risoluzione 2178 (2014) e 2249 (2015) adottate dal Consiglio di Sicurezza. Un Rapporto presentato dal Segretario Generale dell’ONU al Consiglio di Sicurezza, aveva sottolineato come in Europa solo pochi Paesi si siano attenuti a quanto previsto dalla Risoluzione, per quanto riguarda l’adattamento legislativo richiesto. Alcuni Paesi europei, applicano le norme esistenti sul reclutamento e la partecipazione all’attività terroristica nell’ambito del Diritto Penale generale, proprio come fa l’Italia; mentre le legislazioni dovrebbero essere adattate specificatamente alla fattispecie terroristica.
Vi sono poi altri aspetti che dovrebbero essere precisati normativamente:
- l’ammissibilità della prova acquisita da fonti di intelligence;
- le misure per prevenire i movimenti di foreign figthers;
- lo scambio accresciuto di dati fra gli organismi di Polizia e di intelligence.
Una proposta di legge -anche questa rimasta paradossalmente inevasa- era stata presentata dall’Onorevole Giorgia Meloni con altri Parlamentari per l’inserimento nel Codice Penale del “crimine di radicalizzazione” per quanti mettono in pericolo la sicurezza pubblica promuovendo e disseminando appelli all’assassinio di persone accusate di apostasia, ad attuare punizioni attraverso la tortura la mutilazione, la flagellazione alla negazione della libertà religiosa, alla riduzione in schiavitù o al traffico di esseri umani. Tra i casi di terroristi arrestati in Italia per poi esser rimessi in libertà per assenza di una norma specifica, come quella proposta dall’On. Meloni sul “crimine di radicalizzazione”, spicca quello di un indiziato con cittadinanza marocchina e italiana per l’ultimo attentato terroristico a Londra.
E’ veramente auspicabile che il Parlamento riprenda ora queste proposte e adegui la nostra legislazione in tempi brevi.
IV) Il radicamento jihadista in Italia.
In un suo importante lavoro il Prof. Lorenzo Vidino ha ricordato un numero crescente di indagini e di arresti di jihadisti spesso nati e cresciuti nel nostro Paese, Comunità di immigrati arabi, radicalizzati in Italia. Il suo studio segnala alcune caratteristiche:
- l’autonomia dei Jihadisti “cresciuti in Italia” dai Network internazionali;
- il massiccio uso di internet;
- la disponibilità di “lone wolves” – leoni solitari – disponibili per attacchi in Italia o per unirsi alla Jihad in Siria;
- lo scarso rapporto tra emarginazione socio-economica e fenomeni di radicalizzazione.
Secondo Vidino il jihadismo in Italia ha seguito un percorso un po’ diverso da quello degli altri Paesi dell’Europa occidentale. L’Italia è stato uno dei primi Paesi del Continente ad essere testimone di attività jihadiste su scala relativamente ampia. Negli anni ’90 i network jihadisti già presenti in Italia hanno avuto un ruolo importante nell’affermarsi della jihad globale eppure sino ai primi anni duemila la situazione in Italia era rimasta più tranquilla che in altri Paesi europei. C’è tuttavia da tener presente che l’Italia è stata tra i primi Paesi Europei a ospitare attività jihadista relativamente a larga scala. Militanti Nord Africani si sono stabiliti in diverse regioni del nostro Paese e Milano è rapidamente diventata un “hub” jihadista indiscusso, con la fondazione dell’Istituto Culturale Islamico di Viale Yenner nel 1982, ad opera dell’Organizzazione egiziana Al-Gama’a al-Islamiyya. L’Istituto Culturale Islamico ha acquisito ancora maggiore importanza per il jihadismo globale allo scoppio della Guerra Bosniaca nel ’92. Non solo l’Imam di Viale Yenner Anwar Shaban era il comandante dei combattenti nel battaglione dei Mujahideen bosniaci. Milano era lo snodo cruciale per l’invio dei documenti, finanziamenti sostegno logistico ai volontari che si recavano in Bosnia. Il primo attentato suicida in un Paese europeo è avvenuto nel ’95 con l’attacco a una stazione di Polizia di Rijeka da parte di un residente a Milano di discendenza egiziana. L’Istituto Culturale Islamico di Viale Yenner ha continuato le sue attività negli anni ’60 e all’inizio del 2000 continuando a essere nella definizione del Dipartimento del tesoro americano “la principale stazione di Al-quada in Europa. Predicatori fondamentalisti erano ospiti abituali dell’Istituto così come militanti tunisini, algerini, marocchini. Documenti contraffatti, fondi e reclute da Milano andavano ad alimentare i gruppi jihadisti dall’Algeria al Pakistan e all’Iraq, dove diversi terroristi reclutati a Viale Yenner compivano azioni suicide. A partire dalle fine degli anni ’90, affiliati alla Moschea di Viale Yenner hanno stabilito e preso possesso in Moschea a Como, Gallarate, Varese, Cremona e sono stati coinvolti in attività criminali, incluso il furto di armi a Torino e a Bologna la maggioranza dei “clusters” sorvegliati e smantellati dalle Autorità italiane in tale periodo possedeva caratteristiche simili.
Tuttavia negli ultimi anni i fenomeni di radicalizzazione in alcune Comunità immigrate sono ricomparsi nuovamente e in misura diffusa.
La tendenza al radicamento jihadista in Italia si è affermata più lentamente che in altri Paesi europei. Il ritardo è dipeso da fattori demografici dato che l’immigrazione su larga scala da Paesi Musulmani verso l’Italia si è verificata solo a partire dalla fine degli anni ‘80 e inizio degli anni ’90 e quindi tra venti e quarant’anni più tardi che in Francia, Germania, Gran Bretagna e Olanda.
Una seconda generazione di nati in Italia ha raggiunto la maturità solo in questi anni. Lo studio effettuato dal Dott. Michele Groppi dimostra vi sono percentuali statisticamente significative fedeli all’Islam che vengono definite radicali. C’è un contesto diversificato e frammentato del jihadismo in Italia. L’emergere di jihadisti “home-grown” nati e formati in Italia, non significa che i network tradizionali siano stati completamente soppiantati; un certo numero di tali network sono stati indeboliti da arresti ed espulsioni durante gli ultimi 15 anni, ma sono sempre attivi. Essi interagiscono sulla rete, sono sparsi attraverso il Nord Italia, a Milano, a Genova, Bologna e nelle Comunità rurali. La loro presenza è documentata anche in Italia centrale e Meridionale. In genere non sono stati direttamente coinvolti in episodi di violenza, e limitano la loro attività a una presenza spesso ossessiva sulla rete, disseminando materiale che va dalla diffusione di teorie teologiche fondamentaliste all’incitamento e alla radicalizzazione con connotazioni più operative.
V) Conclusioni.
I Paesi europei devono affrontare la sfida del “jihadismo europeo”, sia sul piano interno che nelle loro politiche estere e di sicurezza, con una strategia che garantisca gli equilibri regionali soprattutto nel Golfo, relazionandosi con molta chiarezza a Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iraq da un lato e allo stesso tempo contenendo le ambizioni iraniane e la pesante interferenza di Teheran nell’arco di crisi che va dallo Yemen, all’Iraq, alla Siria e al Libano. Molti ritengono impossibile un serio impegno del mondo Arabo senza contrastare le forze che promuovono una radicalizzazione globale nel mondo islamico. Esse appartengono non soltanto alla realtà sunnita, ma in misura altrettanto aggressiva alla realtà Sciita, guidata e sostenuta dall’Iran.
Per concludere più specificamente sul tema delle politiche migratorie che l’Italia potrebbe sostenere in ambito europeo vorrei evidenziare cinque ipotesi di misure concrete. Ne parla “Foreign Affairs”, l’autorevole pubblicazione liberal, di orientamento Democratico:
- la distinzione tra rifugiati e tutte le altre categorie di migranti, attraverso norme omogenee tra i diversi paesi membri che siano sostenibili e incontrino la fiducia del pubblico;
- pur mantenendo la possibilità di avanzare richieste di asilo politico nel territorio dell’Unione di norma, le procedure di asilo e dell’accoglienza dei migranti dovrebbero essere espletate nei Consolati e nelle Ambasciate europee o in appositi hubb nei paesi di provenienza e/o di transito esterni all’Unione;
- circa la condivisione delle responsabilità, è generalizzata la constatazione dell’iniquità delle regole di Dublino. Un sistema sostenibile esige la netta separazione fra la responsabilità di accoglienza dei migranti o dei rifugiati e la valutazione della domanda, cancellando l’identità che il Regolamento di Dublino stabilisce tra il Paese di primo ingresso e la responsabilità di accoglienza;
- l’adozione di procedure omogenee e precise sul salvataggio in mare, sui punti delle procedure di sbarco, prevedendo interventi finanziari compensativi per i Paesi di “prima linea”;
- un efficace meccanismo per il ritorno in Patria dei richiedenti asilo o dei rifugiati ai quali non venga riconosciuto titolo per entrare in Europa.