Padova, 27 novembre 2018
Università degli Studi di Padova – Aula Magna “Galileo Galilei”
Nuovi protagonisti nel Mediterraneo e interessi nazionali dell’Italia.
I) I mercati dell’Italia. Le dinamiche geopolitiche stanno trasformando con rapidità inconsueta l’intera area del Mediterraneo. Quelle economico-sociali della post-globalizzazione sono oggetto di dibattiti anche aspri.
Vi sono peraltro dei punti fermi, dati statistici- non fake news- ai quali la discussione dovrebbe essere ancorata.
Anche le competizioni più spinte tra interessi nazionali, ambizioni, influenza devono trovare punti di equilibrio sulla base di regole definite, pattizie o consuetudinarie, globali o regionali, ma sempre alternative e di gran lunga preferibili alle politiche del fatto compiuto e del ricorso alla forza: ancor peggio se illegittimo e in violazione della legge internazionale.
Una sana competizione di mercato non può prescindere da un quadro complessivo di stabilità e di sicurezza. I dati sul nostro interscambio, sulla presenza delle nostre aziende, sugli investimenti diretti in entrata e in uscita sono indicatori affidabili e significativi per individuare le priorità del Paese nei diversi contesti regionali e per orientare la sua politica estera.
Un rapido sguardo ai dati recenti del nostro interscambio evidenzia già di per sè le aree più dinamiche che meritano di essere sostenute e incoraggiate dal Governo.
Una prima constatazione da fare riguarda la dimensione dominante nella crescita e nella competitività dell’economia italiana del rapporto con l’estero. Le nostre imprese più vitali nel superare la stagnazione economica del Paese nell’ultimo decennio sono quelle internazionalizzate, e in generale si può affermare che il grado di internazionalizzazione sia in rapporto molto stretto con l’aumento del loro fatturato e utili.
Negli ultimi tre anni il nostro export complessivo è aumentato di circa il 9% con crescita costante nel 2015 – 2016 – 2017, e ancora nei primi nove mesi del 2018. L’import nello stesso periodo è aumentato dell’8,3%. Il saldo attivo per l’Italia si è quindi confermato come una tendenza di medio periodo.
L’ulteriore sviluppo di questa tendenza positiva deve quindi rappresentare un obiettivo fondamentale per la nostra politica estera e per quella economica. Corollario ne è una strategia di integrazione europea che perfezioni ulteriormente il “single market”, la liberalizzazione multilaterale degli scambi con i partners dell’Unione, il progresso verso l’attuazione dello Stato di Diritto e il rafforzamento della Legalità nella comunità internazionale.
Se guardiamo poi alle “componenti dinamiche” di questa realtà si notano, nell’essenzialità delle statistiche, i seguenti trend:
- l’interscambio Italia-UE corrisponde a quasi un terzo del nostro PIL, con un export nell’ultimo anno (2017) in aumento del 7,2%;
- con gli Stati Uniti l’aumento del nostro export nell’ultimo triennio è stato del 12,3%, con un nostro saldo attivo attorno ai 25 Mld€, un interscambio di 56 Mld€;
- con l’America Latina il nostro export è aumentato sempre nell’ultimo triennio del 3,9% in un interscambio di 23,5 Mld€;
- con la Russia l’aumento dell’export nel triennio è stato -11%, soprattutto a causa della recessione russa oltre che delle sanzioni; ma è fortemente ripreso nel 2017 con un +18,9%, con un interscambio complessivo di 20,3 Mld€, e un nostro passivo – per importazione di idrocarburi- di 4,4 Mld€;
- nei confronti della Cina il nostro export nel triennio è cresciuto del 29% ma con un nostro disavanzo di 15 Mld€ su interscambio complessivo di 41 Mld€. Da notare come la dimensione del mercato cinese si stia per noi avvicinando a quella del mercato statunitense: 42 rispetto a 45 Mld di euro ma con caratteristiche completamente opposte per quanto riguarda la competitività delle nostre aziende. Pur trattandosi in entrambi i casi di commercio tra economie manifatturiere, e quindi non trainato dallo scambio di materie prime come con la Russia, i valori attivi per l’Italia sono molto significativi e favorevoli per l’Italia verso gli USA, mentre segnano un pesante disavanzo con la Cina;
- verso il Mediterraneo, le condizioni geopolitiche (Libia, Siria, Iran, Iraq) hanno segnato un triennio sostanzialmente stagnante con un nostro export stazionario attorno ai 27 Mld€, e un import in lieve crescita, del 4%, con valori sui quali ha influito il contenuto prezzo degli idrocarburi rispetto al periodo precedente.
I dati che precedono confermano da un lato centralità e rilevanza del commercio estero dell’Italia con i Paesi Mediterranei; dall’altro la necessità per l’Italia e per l’Europa di rientrare da protagonisti nelle dinamiche geopolitiche che determinano la stabilità della regione e la sua crescita economica.
E’ da tener presente che aumenta il ruolo del Mediterraneo nell’ambito dell’economia marittima: canale di Suez; investimenti cinesi; reti logistiche. Un recente studio di Intesa Sanpaolo mostra la robusta componente mediterranea negli scambi commerciali mondiali. I volumi degli scambi via mare nel mondo sono aumentati del 4% lo scorso anno, per un totale record di 10,7 miliardi di tonnellate. Le stime nel medio-lungo periodo prevedono un incremento medio annuo del 3,8% tra il 2018 e il 2023, per tutti i segmenti del trasporto marittimo, in particolare, il traffico container e le rinfuse solide. Le economie emergenti continuano a rappresentare la parte più significativa, con una quota sul totale del 59% dell’export e il 64% dell’import; in particolare l’Asia rappresenta il 40% dell’export e il 61% dell’import.
Molto interessanti i dati per il Mediterraneo. Il traffico attraverso Suez ha chiuso il 2017 con 909 milioni di tonnellate transitate- quasi un decimo del totale mondiale! – e 17.550 navi con un aumento dell’11% sul 2016. È aumentato del 20% il traffico nella direzione Nord-Sud. Esso rappresenta il 52,6% del traffico nel Canale. Da Sud verso Nord il trend è stazionario, con aumento del solo 3%. Negli ultimi 20 anni sensazionale è stato l’aumento del traffico container anche per il Mediterraneo, dove è cresciuto del 500%. E i primi 30 porti del Mediterraneo hanno raggiunto e superato la soglia dei 50 milioni di TEUs (Twenty-Foot Equivalent Unit), dai 9 milioni del nel 1995. Secondo il Liner Shipping Connectivity Index dell’Unctad gli scali del Sud Mediterraneo -NordAfrica e Turchia- dal 2004 ad oggi hanno notevolmente ridotto il gap di competitività con i porti del Nord Mediterraneo.
Un impatto rilevante sul Mare Nostrum sta producendosi con la Belt & Road Initiative che potrebbe attivare circa 1.400 miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali. Sino ad ora sono stati censiti progetti pari a 146 miliardi di dollari. Si prevede che tali investimenti consentirebbero alla Cina di realizzare, al 2020, un export di circa 780 miliardi di dollari e un import di 570, con una fortissima crescita, quindi, del già preoccupante disavanzo commerciale dei Paesi Europei verso la Cina. Gli investimenti della Cina in porti e terminal del Mediterraneo si situano attorno ai 4 miliardi di euro, con investimenti significativi nel 2017 tra cui Valencia, importante caposaldo per Pechino nel Mediterraneo occidentale, dopo quello acquisito al Pireo per il Mediterraneo orientale e Zeebrugge per il Nord Europa.
II) Le dinamiche geopolitiche nel Mediterraneo. Anche sotto un profilo strettamente geopolitico, i nuovi e importanti protagonisti nel Mediterraneo sono la Federazione Russa e la Cina. Ma i molti elementi di novità che il loro “ingresso” comporta devono essere considerati soprattutto in relazione ai “protagonisti storici “della grande regione che va da Gibilterra al Golfo Persico. Essi sono i Paesi Arabi, la Turchia e l’Iran. Da molti punti di vista questo gruppo di Paesi è estremamente rilevante per la sicurezza internazionale, lo sviluppo economico regionale e globale, e influisce considerevolmente sul ruolo dell’Italia nel Grande Mediterraneo.
A) Il mondo Arabo. Sono anche loro “nuovi attori”, ove si consideri la rapidissima evoluzione degli equilibri geopolitici dopo le “Primavere Arabe” del 2011.
Sono loro ad essere stati al centro dei profondi mutamenti che hanno segnato le vicende di questo decennio, in uno scacchiere geopolitico di fondamentale rilievo per la nostra politica estera.
Nel 2011 le rivolte popolari hanno rovesciato leader autocratici. Vi erano forti speranze che il movimento di protesta avviasse una nuova era di democrazia. Ma ad eccezione della Tunisia le rivolte si sono concluse in guerre civili o in situazioni irrisolte. Nel 2014 il mondo arabo ha subito un altro colpo quando il prezzo del petrolio è crollato, minacciando quei sistemi di Governo: sia perché nei Paesi produttori venivano a mancare le risorse per far quadrare i bilanci e assicurare l’acquisizione del consenso popolare; sia perché per i Paesi arabi non grandi produttori di petrolio diminuivano i finanziamenti ottenuti dai loro fratelli più ricchi. In superficie, la maggior parte dei Paesi Arabi sembrava aver superato la tempesta, sia pure con difficoltà. Ma ci sono tutti i motivi per ritenere che nuove turbolenze si preparino. Gli shock del 2011-2014 sarebbero stati – per un commentatore autorevole come l’ex ministro degli esteri giordano Marwan Muasher – soltanto i prodromi di una più profonda trasformazione. Un vero compromesso tra governanti e governati, alla base della stabilità in Medioriente, sarebbe gravemente incompleto se i leader della regione non avviassero rapidamente riforme politiche ed economiche vitali per la stabilità e lo sviluppo dei loro Paesi.
Il caso dell’Arabia Saudita lo dimostra in tutta la sua crudezza. E’ necessario un compromesso tra apertura alla modernità, mantenimento di un sistema di Governo molto accentrato, una componente religiosa fondamentalista profondamente radicata nella storia e nelle tradizioni del Paese, l’esigenza onerosa di finanziare da un lato innovazione e riforme, e dall’altro di mantenere il consenso popolare attraverso elargizioni economiche.
Gli incidenti di percorso possono complicare la ricerca di nuovi equilibri. Ciò è evidente non soltanto per l’Arabia Saudita ma anche per gli altri attori regionali: Egitto, Siria, Iraq e Iran.
In realtà le rivolte del 2011 avrebbero dovuto indicare ai Governi mediorientali che un’attenzione molto seria alla Governance e non soltanto alle riforme economiche era necessaria da tempo. Ma una volta che la pressione iniziale si è attenuata i Governi sopravvissuti alle Primavere Arabe sono tornati subito alle loro vecchie abitudini, a forme di autoritarismo violento, con enormi prezzi da pagare per le loro società. E’ accaduto in Iran, Siria, Yemen e Libia; è parso evidente con la crescita islamista in Egitto. Mentre le terribili esperienze della Guerra Civile Siriana, della dissoluzione dello stato libico e della repressione in Egitto, hanno scoraggiato le popolazioni dal protestare, fatta eccezione per quanto sta avvenendo da un anno in Iran.
Nell’agosto 2014 il prezzo del petrolio, che aveva toccato nel 2008: 140 dollari al barile, è crollato al di sotto dei 100 dollari, sino a un minimo di 30 dollari nel 2016, per poi ritornare – grazie anche a una collaborazione al di sopra degli schieramenti regionali tra Russia, Iran, Arabia Saudita ed altri produttori – a un valore vicino a quello che rappresenta un livello vitale per il bilancio saudita, tra gli 80 e gli 87 dollari al barile.
La ripresa dei prezzi del petrolio, con la possibilità di rifinanziare i programmi sociali, non è bastata ad evitare nel 2018, dimostrazioni e richieste di cambiamento diffuse; represse con estrema durezza in Iran; meno appariscenti ma sostenute comunque da predicatori, attivisti politici, e organizzazioni femminili in Arabia Saudita. La Giordania ha sperimentato per la prima volta dalla Primavere Arabe alcune proteste popolari. Si dimostra così l’esistenza di comuni rischi di scollamento tra élites al Governo in un Paese Arabo detentore di una enorme ricchezza petrolifera, come l’Arabia Saudita, e un altro come la Giordania, un importatore di energia che deve essere sostenuto da Paesi più ricchi.
Una politica europea e Mediterranea mirata alla stabilità e alla crescita dell’intera regione non può quindi che fondarsi sull’impulso a riforme politiche significative che sostengano le riforme economiche. Anzitutto perché i Governi non possono continuare ad essere i principali datori di lavoro per le loro popolazioni, dato che l’impiego pubblico rappresenta rispetto a quello privato una percentuale insostenibile. Deve essere inoltre radicalmente migliorato il “business environment”, la promozione del settore privato, della piccola e media impresa, l’educazione e l’assistenza sanitaria.
Per quanto impegnative e difficili, riforme economiche immediate possono essere meno problematiche che in un futuro più distante. E’ quindi un interesse nazionale per il nostro Paese per l’Europa favorire con decisione questa dinamica.
L’aspetto forse più preoccupante che, secondo un giudizio diffuso, riguarda il Mediterraneo, è quello del disimpegno americano.
Il mese scorso l’Amministrazione Trump ha annunciato una nuova strategia per la Siria. Essa ridimensiona l’obiettivo di contrasto allo Stato Islamico, per sostituirlo a quello del contenimento dell’Iran. Tuttavia, vi sono da considerare gli imprevisti, come l’uccisione a Istanbul del giornalista Saudita, Jamal Khashoggi, e lo spostamento di equilibri che esso rischia di determinare a favore della Turchia e in ultima analisi anche dell’Iran.
B) Nuovi schieramenti. Gli schieramenti in Medio Oriente sono da tempo variabili indipendenti. Per decenni potenze regionali come l’Iran, Iraq, Israele, Arabia Saudita e Turchia, sono state in competizione per massimizzare il loro potere ed equilibrare o strumentalizzare gli interventi esterni, della Russia, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Fino a pochi anni fa Stati Uniti e i loro alleati regionali – Israele, la maggioranza degli Stati Arabi del Golfo e la Turchia – erano coalizzati contro l’Iran. Ma dopo il 2015 e l’Accordo Nucleare con l’Iran, era sembrato certo, e non soltanto probabile, che un altro schieramento favorito dall’Amministrazione Obama avrebbe avuto successo nel coinvolgere anziché isolare il regime iraniano. Ora la questione Siriana e nuove contrapposizioni nel mondo arabo, causate anche dal sostegno all’Islam politico (fratelli musulmani), hanno creato delle nuove opportunità per Erdogan, in un gioco di riallineamento tattico verso Iran e Russia. D’altra parte le vicende di questi ultimi anni hanno favorito in Turchia un sentimento critico verso gli Stati Uniti e l’Occidente: con la reazione di Erdogan al tentativo di colpo di Stato, la polemica con Washington sul caso Gulen, la strategia di Erdogan in Siria tutta mirata alla repressione dei Curdi, alleati invece agli Stati Uniti nella campagna contro l’Isis.
Il caso Khashoggi è stato solo l’ultimo dei diversi capitoli che hanno esacerbato le tensioni tra Turchia e Arabia Saudita. Nella “querelle” tra i Paesi del Golfo Persico i sauditi e i loro alleati hanno interrotto i rapporti con il Qatar, Ankara si è avvicinata a Teheran e a Doha. Per la Turchia il Qatar è un alleato importante anche sul piano economico e militare. Ankara ha aperto in Qatar la sua prima base militare nella regione sin dal 2015.
Per quanto riguarda la Russia, ha fatto sensazione che un Paese Nato come la Turchia abbia potuto acquistare i missili S400, nonostante le forti reazioni americane. Tutto questo sullo sfondo di un conflitto siriano nel quale Stati Uniti e Arabia Saudita sono ancor più coesi perché uniti nella comune inimicizia verso l’Iran, che ha motivato la loro collaborazione nel sanguinoso conflitto in Yemen.
La necessità per Ankara di stabilizzare la Siria può far superare il disprezzo per Bashar al-Assad, e ricomporre gli obiettivi turchi con quelli iraniani e russi. Certamente la Turchia è più preoccupata dei Curdi che non dell’Isis. In questo può essere vista come più vicina all’Iran e alla Russia che non agli Stati Uniti e all’Arabia Saudita per i quali il principale nemico in Siria è certamente l’Iran con i suoi “proxies”.
Certo non è che questi tre Paesi manchino di sospetti e mancanza di fiducia l’uno verso l’altro: sono sentimenti radicati nelle loro storie e rivalità, ma per Washington ciò significa che si devono fare i conti con un riallineamento di blocchi in Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale, con implicazioni globali per gli Stati Uniti e l’Europa.
III) I nuovi protagonisti globali, e “revisionisti”: Russia, Cina e Iran.
Tra i principali e nuovi “attori statuali” nella trasformazione del Mediterraneo sono certamente Russia, Cina e Iran. Nelle crisi in atto e in quelle che potranno ulteriormente prodursi, il ruolo di questi nuovi players non può essere affatto sottovalutato.
a) Russia e Iran. Dall’agosto 2013 la Russia e l’Iran hanno guadagnato una posizione dominante nella guerra civile siriana, e ne indirizzano la conclusione verso una soluzione essenzialmente militare. Per numero di vittime, crimini contro l’umanità, distruzioni quella siriana è una catastrofe mai sperimentata dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Dal 2012 si è constatato un disimpegno crescente degli Stati Uniti in Siria e per molti versi in Iraq: i due Paesi di maggior importanza nei disegni espansionisti del regime iraniano. Dal 2013 vi è poi stato un fortissimo impulso del Presidente Obama per la completa normalizzazione delle relazioni con l’Iran attraverso un accordo nucleare concluso, come molti ritengono ormai, “ad ogni costo”. Un accordo dal quale gli USA di Trump sono voluti rapidamente uscire. Nello stesso tempo è stata lasciata carta bianca al Presidente Putin per iniziative militari e diplomatiche in tutta la regione, e soprattutto in Siria, sotto l’egida della guerra allo Stato Islamico e dell’antiterrorismo.
Mosca ha fatto leva sull’antiterrorismo per porsi come “honest broker” a seconda dei momenti e delle convenienze, anche con la Turchia e con Israele.
Il conflitto in Siria, che sin dal 2011 preannunciava una sua rapida metamorfosi in conflitto regionale e per alcuni versi globale, ha rappresentato la “tempesta perfetta” per un grande stratega come Putin. Gli ha consentito di acquisire un ruolo che neppure i più ottimisti tra i leader comunisti della vecchia URSS avrebbero forse sperato di conseguire, nell’altalenante competizione di influenza e di alleanze nel Mediterraneo tra gli anni 50 e gli anni 80.
La Russia è ora diventata attore primario e un vero protagonista nel Mediterraneo Orientale. Sembra poterlo diventare rapidamente, grazie alla crisi libica, anche nel Mediterraneo Centrale.
Lo spiegamento di un’ampia forza militare in Siria, in nuove basi che danno a tale spiegamento una proiezione stabile nel lungo periodo, la vendita del sistema antiaereo russo a Siria, Iran e Turchia, modificano l’equazione strategica e riducono le opzioni su cui potevano contare Israele, gli Stati Uniti e la NATO nel suo insieme.
Le opportunità colte da Putin sono particolarmente significative perché corrispondono alle incertezze di cui soffre l’Alleanza Atlantica, dopo l’elezione del Presidente Trump; anche se gli esiti dei summit Nato a Bruxelles e a Helsinki e le esercitazioni aeronavali della Nato nel Mediterraneo e nel Nord Europa hanno dimostrato che l’Alleanza resta solida e determinata.
Una seconda serie di opportunità è stata colta da Mosca con gli Accordi, o le intese informali conclusi con i partners mediterranei su Siria, terrorismo, petrolio, cooperazione economica e finanziaria. Accordi che sono stati pragmaticamente negoziati e conclusi dai Russi con Paesi avversari o con amici di recente data, come Erdogan, Netanyahu, Rouhani, Assad, Mohammed bin Salman, Al Sisi.
Lo spazio di manovra di Mosca si è ulteriormente ampliato con la controversia tra Ankara e Washington dello scorso agosto, e con quella tra UE e Stati Uniti sulle sanzioni contro l’Iran.
Quanto potrà beneficiare Putin da questi sviluppi? E’ da vedere. Ma non è senza preoccupazione che a Roma si è saputo che il 21 agosto scorso il Cancelliere Merkel e il Presidente Putin a Meselberg avrebbero discusso anche gli interessi che la Russia dovrebbe avere in Libia: evidentemente con riferimento al petrolio, dopo che lo scorso anno, dopo vari incontri tra Putin e il Generale Haftar, Rosneft aveva concluso un importante accordo con i libici.
Grazie al petrolio libico, la Russia intende rafforzare la sua posizione dominante nel mercato degli idrocarburi e la sua capacità di pressione sull’Europa. Proprio mentre la Commissione Europea è impegnata a differenziare gli approvvigionamen-ti. Mosca non si limita alle risorse energetiche. Penserebbe anche a una base navale sulle coste libiche.
b) Cina. Le notizie sulla crescita economica cinese, sia pur rallentata da squilibri macroeconomici, indebitamento complessivo e “guerra commerciale” con gli USA, confermano la portata dei risultati conseguiti dal Presidente Xi Jinping sul piano interno nel consolidare il sistema di potere guidato dal Partito Comunista Cinese: un potere sempre più accentrato nella figura di un Presidente ormai svincolato da termini di mandato e – almeno apparentemente – da qualsiasi forma di opposizione interna. La trasformazione “neo-imperiale” della potenza cinese, i successi registrati in campo scientifico e tecnologico (intelligenza artificiale, quantum computing, spazio e armi di ultimissima generazione), sia pure con le carte spesso “truccate” della sottrazione illegale dei dati ad aziende e ricercatori occidentali, è stata sostenuta da una globalizzazione con vantaggi pesantemente uni-direzionali per la Cina. Ciononostante, sembra prevalere nel dibattito che si sta sviluppando nel nostro Paese una tendenza all’accoglienza entusiastica e incondizionata alle tesi di Pechino, che magnificano i grandi vantaggi dei finanziamenti cinesi e persino la “superiorità” del modello sociale, politico e dell’ideologia cinese rispetto allo Stato di Diritto occidentale.
Su questo sfondo, le iniziative diplomatiche commerciali, finanziarie, militari di Pechino procedono con un “crescendo” nel quale ha trovato perfetta collocazione la grande esercitazione militare russo cinese di fine estate – con trecentomila soldati, mille carri armati, centinaia di aerei e comandi integrati russo cinesi – e gli ormai continui e entusiastici incontri tra Putin e Xi: i due leader si riservano il privilegio di chiamarsi “i migliori amici” l’uno per l’altro, con una plateale “santificazione” che entusiasma anche taluni – non sempre disinteressati… – esegeti del pensiero cinese e dei valori euro-asiatici. Sono certamente molti i Paesi e Governi asiatici, mediorientali e africani, e non pochi i politici e gli imprenditori europei, ansiosi di accogliere finanziamenti cinesi “senza condizioni”, negoziati con metodi spesso assai disinvolti sotto il profilo della lotta alla corruzione, delle garanzie di sicurezza sociale e dei diritti dei lavoratori.
Il disegno di Pechino sembra far parte di un progetto geopolitico per il “nuovo ordine mondiale” nel quale la Cina intenda assumere il ruolo di Superpotenza dominante: un progetto che viene da lontano, ma che assume ora una sua marcata assertività in dichiarazioni, documenti, iniziative diplomatiche e militari, oltre che commerciali e finanziarie, della Cina di Xi Jinping. Quali sono i motivi dei continui ampliamenti che Pechino propone ai suoi orizzonti, dall’iniziale contesto Eurasiatico e Africano (“Vie della Seta” terrestri e marittime) a quelli della “Via della Seta nel Pacifico”, della “Via della Seta sul ghiaccio” nell’Artico, e ora della “Via della Seta digitale” attraverso lo spazio cyber?
La stampa cinese – non aliena da un certo culto della personalità – ha ribattezzato queste iniziative “il cammino di Xi Jinping”; e si sollecitano continuamente apprezzamenti dei Governi stranieri, così da farli rimbalzare nella martellante propaganda interna. Con la ricchezza e il successo si è diffusa la capacità di attrazione del modello cinese. Ciononostante sono numerose le riserve a seguire i “desiderata” di Pechino: perfino da parte di Paesi come Myanmar, considerati per decenni sottomessi politicamente ed economicamente alla Cina. Si discute ora, ad esempio, quale vero interesse abbia Myanmar alla realizzazione del porto di Kyaukpyu nel Golfo del Bengala, con annessa “Zona Economica Speciale”, all’astronomico costo di 7.3 Miliardi $, finanziato da un conglomerato dello Stato cinese che avrebbe una quota del 70% e la gestione per cinquant’anni. Il porto sarebbe di enorme valore per la Cina perché darebbe accesso al mare all’importante Provincia dello Yunnan e consentirebbe alla flotta mercantile e militare cinese di svincolarsi dallo Stretto di Malacca.
Lasciano però molti dubbi le modalità di rimborso del prestito cinese per finanziare il 30% della quota birmana: tutti conoscono infatti quanto avvenuto solo lo scorso anno con il finanziamento cinese per il Porto di Hambantota in Sri Lanka, passato direttamente in mani cinesi con 69 Kmq di territorio circostante perché, nel giro di pochissimo tempo, il Governo locale non è più stato in grado di onorare il debito. Nei mesi scorsi un think-tank particolarmente autorevole nelle questioni dello sviluppo sostenibile – il Centre for Global Development – ha pubblicato una ricerca su otto Paesi che sono ad alto rischio di “collasso finanziario” a causa dell’indebitamento contratto da quei Governi verso la Cina: Laos, Kyrgyzstan, Maldive, Montenegro, Gibuti, Tajikistan, Mongolia Pakistan; in meno di due anni, la percentuale debito/PIL è passata per effetto dei progetti cinesi, rispettivamente (a cominciare dal Laos) da circa 50% al 70%; dal 23% al 74%; dal 39% al 75%; dal 10% al 42%; dall’80% al 95%; dal 55% all’80%; dal 40% al 58%; dal 12% al 48%.
In Montenegro l’autostrada finanziata da Pechino configura il solito “patto leonino”, dato che l’ammontare del debito corrisponde a un quarto dell’intero PIL del Paese e la ferrovia in Laos, alla metà del PIL annuo di quella nazione. Si è stimato che nel solo quadriennio 2000-2014 il Governo Cinese abbia finanziato progetti pari a 354 Miliardi di Dollari: non solo il Presidente Trump ha definito “predatorie” tali iniziative, ma la stessa Christine Lagarde – Direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale – ha sottolineato la loro problematicità, auspicando che “la BRI viaggi esclusivamente dove è realmente necessario”.
Le preoccupazioni più immediate riguardano quindi i condizionamenti che il Governo e gli enti statali cinesi sono perfettamente in grado di esercitare in Europa, e in Italia in particolare, ogni volta che Pechino intenda acquisire aziende di valore strategico per i nostri Paesi e per il “Made in Italy”: sovente a condizioni svantaggiose per il “sistema Italia”, sia sotto il profilo economico, sia per quanto riguarda la tutela dei dati informatici, la protezione delle tecnologie, e l’assenza di ragionevoli condizioni di reciprocità.
Nei primi mesi del 2018 tutti gli Ambasciatori UE a Pechino, eccettuato l’ungherese, hanno firmato un rapporto per Bruxelles nel quale hanno definito le nuove “vie della seta” cinesi una sfida alle regole del libero mercato: la maggioranza degli investimenti cinesi nell’Unione Europea nell’anno 2017 provengono infatti da aziende statali ed i settori maggiormente attrattivi per i capitali cinesi sono infrastrutture europee di importanza strategica come trasporto, energia e digitale.
La Cina attraverso le sue controllate ha già accesso a informazioni di rilevanza strategica. Ma Pechino intende ampliare ulteriormente la sua sfera di controllo sulle “reti” strategiche europee e i settori industriali più significativi, utili ai suoi obiettivi geopolitici oltre che all’approvvigionamento di energia, all’acquisizione di brevetti, innovazioni tecnologiche, digitale e automazione. Tutto questo senza che esista a livello europeo un vero e proprio “scudo” comune.
Una ben diversa realtà caratterizza gli investimenti di aziende italiane ed europee in Cina: condizionati da restrizioni di accesso al mercato, dall’assenza di un vero principio di reciprocità e da preferenze regolamentari che mettono le nostre aziende in una condizione di forte svantaggio competitivo. A differenza dell’Unione Europea, gli Stati Uniti hanno un sistema di controllo degli investimenti stranieri attraverso il CFIUS (Committee on Foreign Investment in the United States), un comitato che verifica se determinati investimenti stranieri possano arrecare danno alla sicurezza nazionale. In Europa un tale sistema non esiste ed è solo in discussione ora una proposta della Commissione Europea che si basa su un sistema di coordinamento dei sistemi di “screening” nazionali.
Trump, Macron, Merkel e May manifestano serie preoccupazioni e stanno predisponendo misure di tutela dei rispettivi interessi nazionali: non dovrebbe l’Italia, con la necessità vitale di tutelare il “Made in Italy” nelle imprese strategiche oltre che nei beni di consumo e nei servizi, dimostrarsi sensibile al proprio interesse nazionale e all’esigenza di una più oggettiva valutazione degli investimenti esteri nei settori strategici, e in tutti i campi del Made in Italy?
Il Vicepresidente del Consiglio Di Maio si è detto sicuro che entro la fine dell’anno si chiuderà l’intesa per la partecipazione italiana alla Via della Seta disegnata da Xi. All’Expo di Shanghai sono andate 190 aziende italiane che hanno firmato contratti: Fincantieri che ha siglato la costituzione di un hub a Shangai, compresa una catena di fornitura, per costruire due navi da crociera da 1,6 miliardi di euro (con opzione per altre quattro); Leonardo che vende altri 15 elicotteri da soccorso; Ansaldo Energia che ha siglato un accordo per la fornitura di turbine a gas, e altro ancora. Ma quali saranno le garanzie per quanto riguarda, ad esempio, la sicurezza e tutela dei dati aziendali, e relative tecnologie, se tali dati sono obbligatoriamente gestiti su “server” in Cina?
Nel quadro delle crisi in atto e delle mutazioni geopolitiche nel Mediterraneo, la presenza di due nuovi attori globali come Russia e Cina non è stata ancora sufficientemente compresa.