Intervento “L’interesse nazionale nell’era post-globale”

Roma, 16 novembre 2018 

Sala Convegni della Fondazione Alleanza Nazionale – Via della Scrofa n. 39

 

I) Realismo e interesse nazionale suggeriscono che il nostro Paese sia soprattutto impegnato a sostenere e affermare in Europa e nel mondo – nell’era post-globale, lo Stato di Diritto, le libertà fondamentali della persona umana e la sovranità delle nazioni.

Cercherò di delineare i motivi e circostanze che rendono necessaria una grande chiarezza sui punti cardinali nella navigazione che il nostro Paese e l’Europa devono affrontare nelle acque inesplorate del mondo post-globale.

Nel Marzo 2016 Marco Pannella – con il quale avevo avuto molti contatti nei lunghi anni passati alle Nazioni Unite nelle campagne dell’Italia contro la pena di morte e in sostegno delle libertà fondamentali e dei diritti umani nelle numerose aree di crisi che interessavano la politica estera italiana – mi chiese di presiedere il Comitato Globale per lo Stato di Diritto (Global Commettee for the Rule of Law, Marco Pannella – GCRL). L’obiettivo era di creare un think tank che riunisse personalità conosciute e attive a livello mondiale per contrastare la crescente erosione dello Stato di Diritto e dei diritti umani.

In questi due anni e mezzo il Comitato Globale ha svolto – in collaborazione con Istituzioni governative, Parlamentari, Università, think tank italiani e stranieri – un’intensa opera di “advocacy”, per affermare la centralità del “diritto alla conoscenza” in un’epoca di pericolosi sovvertimenti del principio di verità; e al tempo stesso per squarciare i veli dell’indifferenza, dei condizionamenti ideologici, degli interessi economici. Pesanti coltri che impediscono al cittadino di comprendere e reagire a violazioni sempre più estese dei diritti umani e agli attacchi allo Stato di Diritto.  E’ una realtà che riguarda non solo regimi totalitari o autocratici ma le stesse democrazie occidentali.

Definire cosa sarà l’era post-globale può essere molto arduo. Infatti, si possono nutrire passioni anti o pro-globaliazone, ma sarebbe utopistico immaginare un futuro nel quale gli Stati possano ritornare all’ordine della pax westfaliana, dei Sovrani (dinastici o meno) che governino il base al principio ”cuius regio, eius religio”, regolati nei rapporti tra loro da un ordine internazionale consuetudinario – ius naturalis, Grozio – o pattizio – “pacta sunt servanda” – e in ultima istanza il diritto a risolvere con la forza e la guerra le loro controversie.

Non chiamiamolo quindi “globale” il futuro dei rapporti internazionali; chiamiamolo pure post-globale, ma nell’intesa che l’integrazione regionale, e in molti casi mondiale dell’economia come per le tecnologie dell’informazione, le interdipendenze tra i diversi spazi geopolitici (Occidente, America, Europa, Russia, Cina, Asia, Pacifico Meridionale, Africa, America Latina e caraibica) saranno non solo pari a quelle degli ulteriori venti anni ma sempre più strette e con dinamiche sempre più accentuate.

I motivi sono molteplici:

a) rapporti competitivi tra le tre principali aggregazioni: USA, Europa, Cina, aggiungendo la Russia ma solo come junior partner dato che si tratta di un gigante militare ma di uno gnomo economico (PIL uguale a quello italiano;

b) questa competizione è intesa a modificare, dal punto di vista cinese, russo e in parte americano, l’ordine esistente, basato su organismi internazionali, trattati da regole di carattere universale o regionale che servono ad un’infinità di settori di comportamenti individuali o collettivi. Alcuni esempi sono a livello globale l’organizzazione mondiale del Commercio (WTO); la Cote Internazionale di Giustizia; il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale dell’ONU; la Convenzione sul Diritto del Mare, sull’utilizzo pacifico dello spazio, sulla proibizione delle Armi chimiche, sui crimini contro l’umanità e la Corte Penale Internazionale; a livello regionale il “single market” dell’Unione Europea, un mercato che rappresenta la vita per le nostre imprese, dato che assorbe più della metà della nostra esportazione. Un mercato al quale dovrà nell’interesse italiano, restare collegata la Gran Bretagna, per non perdere il beneficio di un saldo commerciale attivo per le aziende italiane pari a 11 miliardi di Euro, e la presenza in UK di quasi un milione di cittadini italiani che lì hanno trovato lavoro e in molti casi successo professionale.

Nella competizione post-globale è interesse fondamentale poter scrivere le regole e aver peso nel negoziale affinché esse siano conformi all’interesse nazionale nostro e dell’Europa;

c) in terzo luogo le dinamiche post-globali renderanno ancor più presente l’interesse a garantire sicurezza internazionale e sicurezza interna; difesa nazionale e collettiva, con i Paesi alleati ai quali ci uniscono comuni valori, interessi, necessità geopolitiche e Trattati.

L’interesse nazionale del nostro Paese si può riassumere in un’unica formula: “una politica estera, che in tema di sicurezza, di difesa, di economia e finanza, di rapporti culturali, scientifici, sociali sia imperniata sullo Stato di Diritto”. Il che vuol dire una politica esterna che affermi, di concerto con i nostri partners dentro e fuori l’Unione Europea, l’Alleanza Atlantica e le altre organizzazioni di cui siamo parte; che affermi il pieno rispetto delle regole sottoscritte; le procedure per la soluzione delle controversie; le limitazioni severe all’uso della forza; la risposta alle sfide planetarie del clima, dell’ambiente, della crescente scarsità di risorse naturali.

 

L’interesse nazionale deve essere adeguatamente percepito percepito dall’opinione pubblica e dall’intera classe politica.

Molti aspetti della nostra politica estera sono oggi dibattuti in modo controverso, a causa di ideologizzazioni diffuse nonostante la fine del comunismo, di interessi settoriali, e anche  personali.

Guardando oltre il nostro orizzonte nazionale ed europeo, penso sia molto importante decifrare in particolare alcune dinamiche che riguardano l’Asia/Cina, l’Europa sino a oltre gli Urali, il Grande Mediterraneo sino all’Iran.

Per questi motivi il Comitato Globale di cui parlavo all’inizio, ha costantemente seguito gli sviluppi in tale paese; le crudeli repressioni del regime teocratico contro una popolazione che si sta ribellando e vuole ben altro; gli interventi settari della dirigenza fondamentalista sciita in Siria, Iraq, Libano, Yemen, le minacce allo Stato di Israele, la vera natura dei programmi nucleari e missilistici. L’Iran rappresenta per la politica estera e di sicurezza europea e per la stabilità dell’intero Medio Oriente una minaccia molto seria. Convenienze e “appeasement” in campo europeo hanno contribuito a fare della questione iraniana uno dei casi più emblematici per la credibilità della sicurezza europea.

Sulla Cina, si sta arroventando il dibattito quanto alle vere motivazioni politiche e strategiche di Pechino con i progetti “One Belt One Road” e “China 2025”. Un dibattito che riguarda molto da vicino il nostro Paese. Lo dimostra l’indagine conoscitiva sulle politiche di investimento cinese in Italia e in Europa nei settori strategici, appena avviata dalla Commissione esteri della Camera dei Deputati. In Cambogia, ad esempio, come in altre parti dell’Asia, sino all’Europa, all’America Latina e al Mediterraneo, Pechino utilizza ingenti risorse in una “sharp diplomacy” basata su valori alternativi rispetto a quelli delle società sulle quali si reggono le democrazie occidentali. In questa visione “revisionista” dell’ordine multilaterale, giuridico e politico, dell’intero dopoguerra e soprattutto del dopo “guerra fredda”, Pechino trova alleati di convenienza, in una sorta di “combinazioni à la carte” con Mosca, Teheran, Caracas, L’Avana e una platea abbastanza numerosa – anche se non prevalente – di sostenitori degli “uomini forti” ai quali affidare, per un motivo o per l’altro i nostri destini.

Realismo e interesse nazionale si collegano all’affermazione dei principi della democrazia occidentale.

In una sintetica spiegazione delle ragioni e dell’attualità di questi valori conservatori e sostanzialmente di destra, l’Economist ha osservato che è proprio grazie al pragmatismo che tali principi si adattano a “una chiesa ampia”: a tutti coloro che si preoccupano delle contraddizioni emerse con una globalizzazione esasperata, e dei disastri creati da una finanza rapace e persino criminale. Se i grandi pensatori della Destra dovessero trovarsi di fronte alle sfide che ci sovrastano, probabilmente essi si preoccuperebbero soprattutto di tre aspetti:

  • delle “fake news”, dato che il liberalismo si nutre di un confronto critico purché fondato su buona fede e ragione.
  • Quei grandi pensatori si preoccuperebbero della erosione delle libertà individuali, a fronte di quella che Stuart Mill definiva “tirannia della maggioranza”.
  • Essi si preoccuperebbero anche della diminuita fiducia nel progresso. Nuove tecnologie e liberalizzazione dei mercati dovevano diffondere conoscenza, libertà e prosperità economica. E’ andata diversamente. Oggi sono molti a prevedere condizioni economiche e sociali meno favorevoli di quelle dei propri genitori. L’attrazione evidente dei modelli autoritari si spiega perfettamente con la lunga onda della globalizzazione e soprattutto della crisi finanziaria nata, proseguita e mai completamente risolta, che per dieci anni non ha fatto altro che arricchire prodigiosamente proprio i poteri, le banche e gli individui che l’hanno prodotta.

 

E’ così che la democrazia occidentale, la libertà di mercato e il commercio internazionale, sono entrati in una crisi profonda. Ma non tanto perché la globalizzazione abbia fatto tramontare la necessità dello Stato di Diritto nella sua forma compiuta. Sono entrati in crisi perché corruzione economica e sociale, prevaricazioni, uso della forza, hanno trovato insufficienti anticorpi.

I pionieri del pensiero politico conservatore e liberale, come Stuart Mill e Tocqueville dovevano dare senso a guerre e rivoluzioni; Keynes, Popper, Berlin, non si sarebbero rimboccati le maniche anche oggi per fare del mondo un posto migliore?

A questo punto vale la pena di ricordare a proposito dei princìpi che devono guidare la nostra politica estera, il padre della scuola di realismo politico nelle relazioni internazionali, Hans Morgenthau.

I princìpi “classici” del realismo politico sono: la politica è governata da leggi oggettive; il concetto di interesse va definito in termini di potere e permette una comprensione razionale della politica, sulla quale agiscono anche elementi irrazionali; interesse e potere dipendono dalle condizioni di tempo e di luogo; i principi morali non possono essere applicati astrattamente ma devono essere filtrati da circostanze concrete, come quando è in gioco la sopravvivenza nazionale.

Sono riferimenti di estrema importanza e attualità per la politica estera del nostro paese.  E’ facile constatare come quella comunità di valori identitari, di interessi nazionali, di tradizioni e di storia- che corrisponde alla Comunità Atlantica- siano stati piuttosto assenti dal dibattito politico nazionale del prima e del dopo elezioni con poca attenzione alla priorità da riservare alla legalità e allo Stato di Diritto.

La collocazione internazionale del Paese, rimasta per settant’anni un punto fermo nei suoi riferimenti atlantici e europei -in altre parole, nella adesione alla cultura politica che si riconosce nei valori dell’atlantismo – è stata oggetto di affermazioni contraddittorie e confuse, non soltanto tra i diversi partiti in competizione, ma all’interno degli stessi partiti: e questo riguarda un po’ tutto l’arco parlamentare uscito dalle elezioni del 4 marzo.

E’ perciò utile valutare tre aspetti:

A) Il futuro della democrazia occidentale;

B) la contrapposizione “revisionista” che essa incontra sulla scena mondiale;

C) la sua riaffermazione quale interesse nazionale ed europeo.

 

A) La Democrazia occidentale.

  • La rapidissima evoluzione dei rapporti di forza e di influenza nell’attuale realtà geopolitica rende necessaria una duplice strategia: verso Est, e nel Mediterraneo.

A mezzo Secolo dal Rapporto Harmel, l’Alleanza Atlantica deve rinnovare l’impegno dei Paesi membri e delle rispettive società civili.

Viviamo una fase in cui i Paesi NATO hanno ritrovato una compattezza inattesa: a seguito del caso Skripal, e delle violazioni russe al Diritto internazionale verificatesi con crescente intensità negli ultimi quattro anni. Sulle relazioni con la Russia, diceva: “Military security and a policy of détente are not contradictory but complementary”. Questo vale pienamente anche oggi. La  NATO è uno strumento politico e militare insostituibile, e garantisce il rapporto privilegiato dell’Europa con gli Stati Uniti nella sicurezza Atlantica e globale.

  • Nel libro “How to be a conservative” uno dei maggiori interpreti del liberalismo contemporaneo, Roger Scruton, scrive che le basi del modello occidentale di società si possono riassumere in: Stato di Diritto, democrazia parlamentare, solidarietà, uno spirito pubblico che si esprime attraverso “piccoli plotoni” di volontari. Si tratterebbe di una società civile non interamente acquisita al dirigismo statalista del “welfare state”, e forse ancor meno alle burocrazie transnazionali.

Nella sua manifestazione empirica il modello conservatore proposto da Scruton è moderno, concreto, distinto dall’elaborazione metafisica. Riguarda essenzialmente la consapevolezza che a tutti noi, collettivamente, è stato trasmesso un patrimonio positivo di cose buone per le quali dobbiamo lottare.‎ “Nella situazione nella quale ci troviamo quali eredi della civiltà occidentale, osserva Scruton, siamo ben consapevoli delle cose buone che desideriamo. La possibilità di vivere le nostre vite come vogliamo. La certezza di leggi imparziali, attraverso le quali le ingiustizie subite siano riparate. La protezione dell’ambiente quale patrimonio comune che non può essere sottratto o distrutto a capriccio di interessi potenti. La cultura aperta e indagatrice che ha formato le nostre scuole e università. Le procedure democratiche che ci consentono di eleggere i nostri rappresentanti e di adottare le nostre leggi. Queste e molte altre cose ci sono famigliari e le prendiamo per scontate. Ora tutte sono sotto attacco”.

 

Il grande pensatore inglese, indica l’evidente paradosso della “cultura del rifiuto e del rigetto”: e cioè il fatto che la stigmatizzazione della “xenofobia” sta generando, più o meno inconsapevolmente, una altrettanto stigmatizzabile “oicofobia”, a sua volta derivata da quella che A. Finkielkraut ha chiamato “identità infelice”. Già nel 1926 Max Scheler osservava “In nessuna epoca come nella nostra le idee relative all’essenza e all’origine dell’uomo sono state così incerte, indeterminate, diversificate”. Il “mettere in dubbio” costituisce una tendenza all’auto-relativizzazione, che ha fatto confondere “relatività” con “relativismo”.

Ma la cultura occidentale è per sua natura universalistica, non relativista. Quando al grande pensatore francese Paul Valéry, fu chiesto, che cosa significa Europa, chi è l’Europeo, egli rispose con tre parole semplici e insieme densissime di storia e di valori: Atene, Gerusalemme, Roma.

“Queste, egli diceva, mi sembrano le tre condizioni essenziali per definire un’identità europea in tutta la sua pienezza. Ovunque i nomi di Cesare, Gaio, Traiano e Virgilio, ovunque i nomi di Mosè e di San Paolo, ovunque i nomi di Aristotele, Platone ed Euclide hanno avuto un significato e una autorità simultanea, lì c’è l’Europa. Ogni razza e ogni terra che sia stata successivamente romanizzata, cristianizzata e sottomessa, dal punto di vista del pensiero, alla disciplina dei Greci è assolutamente europea”. Europei, per Valéry sono tutti quei popoli che nel corso della loro storia hanno subito tre tipi di influenza.

L’influenza di Roma “vuol dire la maestà delle istituzioni e delle leggi, l’apparato e la dignità della magistratura” sosteneva ancora Valéry. Esse “sono l’eterno modello della potenza stabile e organizzata”. In seguito è venuto il cristianesimo che incide a tal punto sulla precedente coscienza da far emergere una morale soggettiva. La nuova religione esige l’esame di se stessi e in questo senso il Cristianesimo propone allo spirito “i problemi più sottili, più importanti e anche più fecondi. Il Cristianesimo attualizza pienamente l’eredità ebraica e biblica. Il senso della trascendenza. La tensione tra fede e ragione”. Ma non meno essenziale è una terza influenza, quella del pensiero greco. Dobbiamo al pensiero greco “la disciplina della mente, lo straordinario esempio di perfezione in tutti i campi, un metodo nel pensare che tende a riferire ogni cosa all’uomo nella sua globalità, con il pensiero e la filosofia dei Greci, il riferimento rispetto al quale ogni cosa deve potersi applicare.

3) Nell’ottobre 2017, un gruppo di conservatori europei ha pubblicato un manifesto intitolato “A Europe we can believe in”. Il manifesto conservatore è firmato e ispirato da Roger Scruton.

 

I partiti conservatori e di destra in Europa, che la sinistra definisce “populismi”, sono movimenti culturali. Vedono la loro crescita elettorale e di consensi come un’opportunità per ritrovare un’identità europea. Sono interessati a riforme fiscali o del welfare, ma le loro battaglie sui valori e per i diritti dei cittadini vengono prima. Il dibattito sull’immigrazione è un’opportunità per definire chi appartiene o può appartenere a una comunità politica nazionale.  Sia pure con le differenze significative che esistono tra i conservatori dell’Europa occidentale e quelli Est europei. Mentre l’Occidente conservatore riconosce e tutela le diversità, in Europa Centrale e Orientale invece si privilegia l’omogeneità etnica e sociale e si pensa che la diversità non arriverà mai.

 

B) La contestazione “revisionista” della Democrazia occidentale.

Quali sono le principali forze che contrastano, con crescente intensità da alcuni anni, la democrazia liberale? Due esempi sono evidenti: quello della Russia e della Cina.

  • Russia: i valori dell’Eurasia.

Alexander Lukin, un alto esponente del Governo Russo e interprete della visione del Cremlino, ha scritto nel Luglio 2014 un articolo per Foreign Affairs molto eloquente: “Con il successo della cooperazione economica le élites politiche nei paesi dell’unione doganale stanno ora discutendo la formazione dell’Unione politica Eurasiatica… Per rendere una tale Unione efficace, è necessario che essa si evolva naturalmente e volontariamente. Inoltre, portando l’integrazione post-sovietica a un nuovo livello sorge la domanda: quali sono i più profondi valori sui quali l’Unione Eurasiatica si fonda?

Se i paesi dell’Europa sono uniti per sostenere i valori della democrazia, i diritti umani, la cooperazione economica, l’Unione Eurasiatica deve difendere i propri ideali allo stesso modo. Alcuni pensatori hanno individuato le fondamenta ideologiche di questa Unione nella storia. Il concetto di uno spazio o di un’identità dell’Eurasia è nato per la prima volta tra i filosofi e gli storici russi che immigrarono dalla Russia comunista in Europa occidentale negli anni ’20. Come gli slavofili russi prima di loro, i promotori dell’Eurasiatismo spiegavano come vi fosse una “natura speciale” della civilizzazione russa e come in essa si manifestassero forti differenze con la società europea. Mentre i primi slavofili enfatizzavano l’unità slava e contrastavano l’individualismo europeo mettendo in luce gli ideali delle collettività operaie e contadine russe, gli Eurasiatisti associavano il popolo russo al popolo di lingua turca – o Turanico – delle steppe dell’Asia centrale. Secondo gli Eurasiatisti, la civilizzazione turanica, che nasceva nell’antica Persia, seguiva un suo modello culturale basato essenzialmente sull’autoritarismo.

Questi valori hanno spinto verso leader che sostengono l’integrazione tra le ex repubbliche sovietiche. Hanno anche aiutato Putin a stabilire un centro di potere indipendente in Eurasia. L’intromissione occidentale, nel frattempo, è servita solamente a consolidare questo potere.”

Così Alexander Lukin in Foreign Affairs nel 2014. Lo stesso approccio è alla base della filosofia di Aleksandr Dugin, uno dei maggiori esponenti e ispiratori ideologici del Cremlino. Nel suo libro “The Eurasian mission: an introduction o neo-eurasiasism”, Dugin scrive che il ventunesimo secolo verrà determinato dal conflitto tra Eurasiatisti e Atlanticisti. Gli Eurasiatisti difendono il bisogno di ogni persona e cultura sulla terra di seguire le sue scelte, libero da interferenze, e in accordo con i propri valori. Gli Eurasiatisti lottano per le tradizioni e per il fiorire della varietà di culture, e per un mondo nel quale nessun singolo potere è più forte degli altri.

Contro di loro ci sono gli Atlanticisti. Lottano per l’ultra liberalismo in economia e nei valori, vogliono espandere la propria influenza in ogni angolo della terra, scatenando guerre, terrore e ingiustizia su chi si oppone, sia in casa che fuori. Questo campo è rappresentato dagli USA e i suoi alleati, che vogliono mantenere l’egemonia americana sulla Terra. Gli Eurasiatisti credono che solo la Russia, insieme a tutti i paesi che si oppongono agli Atlanticisti, possa fermarli e creare il mondo multipolare che desiderano.

In un discorso al Valdai Club del 24 Ottobre 2014 Putin si esprimeva così: “Essenzialmente, il mondo unipolare è un modo di giustificare la dittatura su popoli paesi. Penso che ci sia bisogno di una nuova versione dell’interdipendenza.”.

2) Cosa sta accadendo in Cina?

Sin dallo scorso Marzo, l’Economist scriveva: “La Cina è passata dall’autocrazia alla dittatura. Questo è avvenuto quando Xi Jinping, l’uomo più potente del mondo, ha fatto sapere che avrebbe cambiato la costituzione della Cina così da poter governare come presidente per quanto tempo volesse. Dopo Mao nessun leader cinese ha mai avuto così tanto potere.

Dopo il collasso dell’URSS, l’Occidente ha accolto il nuovo grande continente comunista nel suo ordine globale. I leader occidentali credevano che inserire la Cina in istituzioni quali il WTO avrebbe mantenuto le sue grandi potenzialità all’interno di un sistema di regole costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Speravano che l’integrazione economica avrebbe incoraggiato la Cina a evolvere verso l’economia di mercato e, il suo popolo avrebbe ottenuto maggiori libertà democratiche e diritti.

Per diversi decenni, sembrava che questo potesse accadere.

La Cina è diventata enormemente più ricca. Sotto la guida di Hu Jintao la scommessa dell’Occidente sembrava ripagata. E quando Xi Jinping prese il potere cinque anni fa si credeva ancora che la Cina si sarebbe mossa verso lo Stato di Diritto e l’adozione di una Costituzione che vi si ispirasse. Oggi quest’illusione è scomparsa. Xi Jinping  ha indirizzato la politica e l’economia verso un crescente autoritarismo, controllo e repressione delle libertà individuali. Il Presidente ha usato il suo potere per riassestare il dominio del partito comunista. Ha annientato i rivali. Ha creato nuove Forze Armate e riportato l’intero sistema di sicurezza, intelligence e Difesa sotto il suo diretto controllo.

La nuova leadership si è mostrata molto dura nel reprimere ogni forma di dissidenza creando una sorveglianza di stato per monitorare lo scontento e le ribellioni. Alla Cina non interessa come vengono governati gli altri paesi, a patto che non interferiscano con il sistema di potere a Pechino. La Cina sta diventando sempre più un antagonista della democrazia liberale. L’autunno scorso il Presidente Xi Jinping  ha offerto una teorizzazione proponendo che i Paesi partners della Cina comprendano la saggezza cinese e l’approccio cinese alla soluzione dei problemi. Xi Jinping precisava che la Cina non esporterà il suo modello. Si percepisce tuttavia che l’Occidente e l’America hanno nella Cina non solo un rivale economico, ma anche  un antagonista ideologico e strategico.

La scommessa per l’integrazione dei mercati ha avuto successo. La Cina è stata integrata nell’economia globale. È il primo esportatore al mondo, con più del 13% del totale. Ha creato una prosperità straordinaria per se stessa e per chi fa affari con lei. Tuttavia la Cina non ha un’economia di mercato, e ne resta assai distante. Controlla il commercio come arma del potere statale. Molte industrie sono strategiche e dipendono dallo Stato. Il piano “Made in China 2025” punta a creare leader mondiali in dieci industrie, tra le quali l’aviazione, la tecnologia e l’energia, che coprono quasi il 40% del tessuto manifatturiero.

La Cina condivide il sistema di regole esistente nella società internazionale, ma sembra anche progettare un sistema parallelo “revisionista”, autonomo e alternativo. L’iniziativa “One Belt One Road”, che prometteva di investire $1tn in mercati esteri e si ispira al piano Marshall, è uno schema per sviluppare il Nord della Cina, ma soprattutto crea una rete di influenza che impone il “sistema cinese” e il controllo di Pechino.

La Cina usa il commercio per affrontare i suoi rivali. Cerca di punire le imprese direttamente, come la Mercedes-Benz tedesca, che fu obbligata a chiedere scusa dopo aver citato il Dalai Lama online. Le punisce anche per il comportamento dei Governi. Quando le Filippine contestarono la rivendicazione cinese della Scarborough Shoal nel mare cinese meridionale, la Cina subito fermò il commercio delle banane da tale paese per “problemi di sicurezza sanitaria”.

L’Occidente sta perdendo la sua scommessa con la Cina, proprio quando le democrazie liberali stanno attraversando una crisi di identità. Trump ha visto la minaccia cinese ma se ne preoccupa soprattutto in termini di deficit commerciale. La sua promessa di rendere “l’America grande ancora” si scontra con la tendenza all’unilateralismo nel Pacifico, culminante nella rinuncia al Transpacific Trade and Partnership.

L’Occidente ha bisogno di ridisegnare i confini della politica verso la Cina.

 

II) Le direttrici per una riaffermazione dell’interesse nazionale ed europee.

Un dibattito sulla politica estera italiana deve partire dall’identità nazionale, europea e occidentale. Considerazioni, è bene notare, che Roger Scruton faceva tre anni prima che l’ondata terroristica coinvolgesse l’Europa.

 

Ognuno di noi sente di appartenere a una complessa sfera di cultura, di sensibilità sociali, di tradizioni, di idee e valori condivisi che comunemente vengono definiti “identità”, e l’esemplificazione non è certo esaustiva.

 

Un forte elemento identitario della società italiana ‎è il principio di solidarietà e di partecipazione, intrinsecamente legato al valore della vita umana e della dignità della persona. E’ rimasto saldo nelle generazioni che hanno vissuto la tragedia della Seconda Guerra mondiale. Neppure le dittature naziste e Comunista sono riuscite a cancellare i valori di questa identità: lo dimostra ad esempio la circostanza, non sempre sufficientemente ricordata, che nei territori controllati dalle nostre Forze Armate  la “soluzione finale” voluta da Hitler è stata in ogni modo ostacolata, anche sacrificando la vita, da migliaia di militari, diplomatici, funzionari, religiosi e comuni cittadini italiani.

 

Se ciò è avvenuto, non è stato un caso della Storia. Per quasi tre secoli il nostro pensiero politico e giuridico ha sviluppato quel senso di libertà laico e illuminista che, in complessa simbiosi con la tradizione giudaico-cristiana, ha ispirato le rivoluzioni democratiche di fine Settecento e ha continuato a far progredire lo Stato di Diritto sino alla sua odierna concezione, fatta propria dal diritto internazionale, dai Trattati Europei e da numerosi accordi regionali e globali. Ed è la tradizione giuridica  a costituire  per tutti noi un altro, fondamentale elemento identitario‎. Vi è qui un paradosso sicuramente riflesso nella disaffezione popolare per la politica e per le sue istituzioni. Il nostro Paese è tra i primissimi in Occidente ad aver influito da Cesare Beccaria e Gaetano Filangieri  sino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, sulla diffusione dei principi dello Stato di Diritto in Occidente. E si trova invece ad essere considerato tra gli ultimi  nell’attuarli, stando alle rilevazioni delle più accreditate istituzioni internazionali su corruzione, libertà di informazione, stato della giustizia, sistema carcerario.

 

Un fondamentale elemento identitario riguarda la nostra cultura e il suo contributo al progresso dell’umanità. La nostra identità culturale viene alimentata da un'”altra Italia” fatta da decine di milioni di italiani di cittadinanza o di discendenza. L’attrazione verso il paese di origine è così forte che gli ultimi censimenti negli Stati Uniti rilevano costanti e significativi aumenti tra i cittadini americani che si dichiarano di origine italiana, mentre l’immigrazione dall’Italia è ferma da quarant’anni. Purtroppo l’attenzione che dedichiamo a questa “componente identitaria”, storicamente così importante anche nei momenti difficili, è assai modesta, anche se si sprecano retorica e rassicurazioni.

L’affermazione identitaria è compatibile con le legalità internazionali e necessaria allo Stato di Diritto se si traduce in una politica estera basata su regole, valori e realismo.

I “valori euroasiatici” sono sbandierati dal Cremlino, e riecheggiati da una miriade di conferenze e convegni della ancora embrionale Unione Euroasiatica, per giustificare un’interpretazione molto particolare di realismo in politica estera: interpretazione basata sull’uso spregiudicato della forza: dalla Crimea, ai “conflitti congelati” dell’Europa Orientale e del Caucaso, sino al Medio Oriente.

Il richiamo all’identità nazionale per legittimare politiche realiste non manca certamente in Asia: nel Mar della Cina sono ancora i diritti storici, le consuetudini nazionali, la proiezione marittima del Celeste impero quattrocentesco a giustificare, nell’affermazione di identità e interesse nazionale, la politica del fatto compiuto, peraltro condannato lo scorso luglio dal Tribunale Arbitrale dell’Unclos: la “recinzione” dell’intero Mar della Cina con le nove linee tracciate per estendere la sovranità cinese a scogli semisommersi e disabitati, diventati da pochi mesi nuove basi aeronavali cinesi.

Per decenni Pechino ha rifuggito la realpolitik preferendo il ‎basso profilo. Ora sta cominciando a rompere i vecchi tabu. Si dota di basi militari da Gibuti alla Cambogia, sviluppa sfere di influenza e zone cuscinetto rispondenti a propri interessi strategici,  stipula alleanze che dimostrano il pieno superamento delle tesi di un “non allineamento” anticolonialista dove le alleanze e le sfere di influenza non avevano teoricamente posto.

La geopolitica evolve verso un sistema semi-bipolare nel quale Cina e Stati Uniti cercheranno di trovare intese globali, sul clima, il commercio, la sicurezza cyber, mentre continuerà probabilmente a inasprirsi il confronto sulla sicurezza e la libertà di navigazione nel Pacifico. La dimensione e la vitalità economica dei due paesi, la presenza globale delle loro imprese, la diversificazione produttiva, l’enfasi sulla ricerca e sull’educazione, ne fanno comunque sin da ora i due assoluti protagonisti sulla scena mondiale.

Difficile prevedere se l’Europa riuscirà a riaffermarsi, oltre che da gigante economico, da comprimario sulla scena mondiale. In ogni caso, i principali Paesi Europei, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna anche nel post-Brexit dovranno sostenere in ben diversa misura, per il futuro, gli oneri della Difesa nelle regioni a Est e a Sud dell’Unione Europea, dato che il semi – bipolarismo Usa-Cina non riporterà probabilmente mai Washington a una presenza mediterranea ed europea lontanamente paragonabile a quella che caratterizzava gli anni ’90.

La possibilità per la Russia di entrare in modo decisivo nel gioco di un “revisionismo” antioccidentale sembra condizionata – nonostante la rilevanza del suo dispositivo militare e l’assertività della visione strategica del Presidente Putin, dalla contenuta dimensione della sua economia dalla incapacità di differenziarsi dalle risorse primarie prossimi anni saranno segnati da un confronto su una miriade di tavoli negoziali circa “chi deve scrivere le regole”. Dalle questioni della proprietà intellettuale, a quelle ambientali, finanziarie, commerciali, sino alle materie che riguardano la sicurezza nei suoi aspetti globali – spazio, cibernetica, prevenzione delle pandemie. Nuove regole devono essere scritte per la sicurezza europea e asiatica riguardo, ad esempio, l’uso della forza militare, le verifiche, le armi di distruzione di massa, il trattamento delle minoranze nazionali.

Su tutta questa vastissima area sono fondamentali politiche convergenti tra i paesi Occidentali. Se continueremo a essere divisi come siamo stati negli ultimi anni, dalla crisi Lehmann ad oggi, le regole saranno scritte da altre coalizioni di interessi e da Stati che hanno una assai diversa opinione dalla nostra sulla legalità internazionale, lo Stato di Diritto e i diritti dell’uomo.

La comunità internazionale ha fatto grandi passi avanti nell’adottare norme e principi universalmente condivisi che regolano non più solo i rapporti tra gli Stati, ma che hanno anche efficacia diretta al loro interno. Nella tutela dei diritti umani, delle decisioni di alcune giurisdizioni internazionali, la sovranità degli Stati ha subito condizionamenti e limitazioni. Non può essere più riconosciuto un potere assoluto dei Governi sui propri cittadini solo perché uno Stato sovrano si avvale del  dogma della non interferenza negli affari interni.

E’ interesse fondamentale dell’Italia sostenere in ogni modo possibile questo processo. Una legalità sempre più praticata e diffusa nella sfera internazionale non dobbiamo auspicarla per un platonico senso di giustizia, o di amore verso il prossimo. Dobbiamo auspicarla nel senso di quanto affermava Adamo Smith per il mercato: è dall’interesse proprio, dal più elementare utilitarismo e spirito di autoconservazione che dobbiamo partire nei rapporti individuali così come tra gli Stati. Il radicamento della legalità nella forma dello Stato di Diritto, deve pertanto essere l’obiettivo numero uno della politica estera, di sicurezza e di sviluppo dell’Italia, dell’Europa e di tutte le democrazie liberali.

 

©2024 Giulio Terzi

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