Il popolo americano ha eletto il suo Presidente, Donald Trump. Ha voluto un leader forte, libero dai condizionamenti dell’establishment politico, dei lobbisti, di una finanza sfrenata e rapace. Sull’elettorato non ha influito più di tanto il diluvio di notizie su suoi asseriti problemi di carattere, vicende fiscali, machismo, antipatia per immigrati e musulmani. Ha nettamente prevalso l’esigenza di cambiamento, di pulizia, e soprattutto di sicurezza. Chi ha votato Trump ha raccolto il messaggio di un “America Grande” che riporti l’”American Dream” alla portata di tutti.
Affermare l’interesse nazionale attraverso il partenariato, evitando conflitti “a condizione che l’America sia trattata equamente”, come ha sottolineato il 45° Presidente degli Stati Uniti, sarà l’obiettivo traente per la nuova Amministrazione repubblicana. Sembrava che la democrazia americana dovesse uscire a pezzi da una campagna di inauditi colpi bassi, interferenze interne e straniere, accuse e persino minacce tra i due schieramenti. La sua conclusione e la nuova pagina apertasi, pur nelle sofferenza di un’ampia componente latina e afroamericana che avverte molto negativamente la polarizzazione del voto sull’elettorato bianco, sembra dare invece in queste prime ore una prova di straordinaria vitalità della democrazia liberale americana. Il desiderio di cambiamento e di alternanza è stato una molla evidente dinanzi all’insopprimibile sensazione di continuità data da Hillary Clinton, ancor più da quando nelle ultime settimane si è trovata praticamente costretta a contare sull’incondizionato sostegno del Presidente in carica. Vero che il cambiamento era stata la parola d’ordine nel 2008 anche per Obama. Ma con una piattaforma profondamente diversa rispetto a quella dei Repubblicani di allora e ancora più da quella odierna di Trump.
Sulle politiche sociali, economiche, fiscali, immigrazione, sicurezza, rapporti internazionali, multilateralismo, sfide globali come cambiamenti climatici, non proliferazione, lotta al terrorismo, le differenze erano sostanziali otto anni fa, e sono certamente stridenti oggi. Su diversi temi si possono tuttavia delineare compromessi, costruttivi soprattutto se la composizione del Congresso rifletterà un ragionevole equilibrio tra la due metà dell’elettorato espresse dal Paese.
Il Trump che ha pronunciato il suo primo discorso da Presidente designato è parso a tutti profondamente diverso dal Trump “in campagna”: molto conciliante, anziché aggressivo e settario, “presidenziale” nell’appellarsi all’unità dell’intero Paese, e perfino generoso di riconoscimenti per il lungo servizio prestato al Pese ad una concorrente sconfitta che sino a ieri aveva persino minacciati di incriminare una volta divenuto presidente. Sarebbe pertanto rischioso imbarcarsi subito in un esegesi su tutto ciò che cambierà sin dai prossimi giorni e sulle conseguenze positive o negative di questa profonda svolta dell’America verso il resto del mondo: specialmente nei confronti dell’Italia, dell’Europa, della Russia, della Cina, del Medio Oriente e in particolare dell’Iran, nonché su questioni di urgenza e rilevanza drammatica per l’umanità, quali i cambiamenti climatici.
Personalmente vedo una sicura continuità della grande amicizia e collaborazione tra Washington e Roma. L’Italia continuerà a rappresentare in Europa e nel Mediterraneo un partner di rilevanza cruciale per l’interesse nazionale statunitense, nel rapporto col mondo musulmano e mediterraneo, per la sicurezza regionale e globale. Una quota importante del voto italo americano è sicuramente andata a Trump, in misura maggiore di quanto poteva sembrare tra quanti anticipavano nei mesi scorsi un ampio voto di astensione. Riesce quindi davvero poco ispirata la mossa del nostro Presidente del Consiglio, unico tra i suo pari europei, a dare un suo “endorsement” formale a Hillary durante la sua visita e la cena di stato alla Casa Bianca. Non che il nuovo Presidente penserà di farne una questione. Ma è difficile non percepire il fastidio che ciò ha inutilmente provocato tra molti italoamericani e, ancora una volta, all’impressione di superficialità che abbiamo dato.
Su temi della sicurezza internazionale che maggiormente ci toccano, non è da trascurare il ruolo che avrà probabilmente nel “security team” di Trump l’ex Direttore dell’intelligence militare Gen. Michael Flynn, militare di grande esperienza in Iraq e Afghanistan, già tra i principali collaboratori di Petraeus, e tra i pochissimi nomi menzionati da Trump nel suo discorso di stamane. Le posizioni di Flynn sull’Iran, ad esempio, sono assai diverse da quelle che hanno portato all’accordo nucleare e all’attuale indiscriminata corsa all’”Eldorado” del mercato iraniano. Il Governo Renzi avrebbe dovuto muoversi su questo terreno con molta più prudenza dato che il suo improvvido entusiasmo ha convinto diverse aziende a lanciare il cuore – e il portafogli degli azionisti e dei contribuenti se partecipate dallo Stato – oltre la barricata rischiano ora seriamente di bruciarsi.
Nei rapporti con la Russia si apre una strada di dialogo che piacerà sicuramente a molti nel nostro Paese, ma non a tutti in Germania, Polonia, Paesi Baltici. Si tratta di un terreno sul quale sarebbe di cruciale importanza un ruolo e una meditata strategia della diplomazia italiana. L’elezione di un Presidente che ha manifestato amicizia per Putin, e ne viene ricambiato, deve esser colta dagli alleati Europei dell’America come il momento per rilanciare seriamente un sistema di “sicurezza cooperativa” nell’intero continente che ricostruisca un sistema di norme: per la riduzione e controllo delle forze armate convenzionali e nucleari nel continente che trasformi una micidiale tendenza a usare la forza, come avvenuto in Ucraina e nei “conflitti congelati” del Caucaso, in una ricerca della stabilità sulla base dei principi contenuti nell’Atto finale di Helsinki e della Carta di Parigi. Essi sono sempre di estrema attualità se l’affermazione dello Stato di Diritto deve continuare a essere interesse nazionale di americani e europei.
Se questo avverrà, l’elezione di Donald Trump dimostrerà l’errore delle Cassandre che hanno continuato a predicare sino a ieri la “politica delle continuità” e le ricette dei poteri forti, e a sostenere che una svolta conservatrice in America avrebbe accelerato il declino dell’Occidente e della democrazia liberale. Dai primissimi segni che si delineano a Washington, può essere vero l’esatto contrario.