«Dobbiamo fare qualcosa per la Libia. E la situazione in Siria è spaventosa»

L’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata: il dialogo con le comunità islamiche è essenziale .
La presenza dei fondamentalisti in Europa ha radici antiche, non tutti però diventano dei terroristi.

di Susanna Pesenti – L’ Eco di Bergamo

16 Gennaio 2015

Commentiamo gli scenari politici del «dopo Hebdo» con l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, che ha rappresentato l’Italia in Israele, a Washington, all’Onu ed è stato ministro degli Esteri.

In questi giorni emergono voci che invitano a non concentrare l’attenzione solo sulla Francia, quando il terrorismo colpisce in modo anche più atroce altri Paesi. È d’accordo?
«Penso che non esistano vittime di serie A o di serie B. Gli attacchi di Boko Haram in Nigeria sono umanamente terribili e distruggono un tessuto sociale per sostituire uno Stato esistente con un Califfato dagli incerti confini, esattamente come in Siria e in Iraq. Ma la reazione per la Francia non è esagerata, perché poggia su una concezione del mondo sul quale si incardina l’Europa e questo è stato capito da tutti, o quasi».

Prego?
«Mi ha indignato chi ha detto che i giornalisti di Hebdo “se l’erano cercata”. La libertà d’informazione è l’ architrave della coesistenza. Contemporaneamente però si è attaccato l’ebraismo. E se penso alle persecuzioni ai cristiani fuori dell’Europa non posso non pensare che per il terrorismo le libertà dell’Occidente e la tradizione giudaico-cristiana siano avvertite come un tutt’uno».

Ma anche il mondo musulmano è in fiamme ed è difficile capire cosa stia succedendo e come intervenire.
«La situazione della Siria è spaventosa, per la Libia dobbiamo fare qualcosa, anche se la Russia non autorizzerà l’Onu a intervenire perché ai tempi di Gheddafi si è sentita tradita dalla trasformazione di un’operazione di sostegno alla popolazione in quella di un cambio di regime. L’Iran controlla Iraq, Yemen, Siria, Libano e finanzia Hamas; i Boko Haram dalla Nigeria si allargano verso Niger, Repubblica centrafricana e Mali con agganci nel Corno d’Africa tra gli shabbab del Kenya. Isis e Al Qaeda sono rivali ma evolvono verso uno jihadismo globale. È un grande mondo in movimento: per noi il dialogo con le comunità islamiche in Europa è essenziale».

Si è detto che l’Islam estremista è cresciuto a causa delle guerre in corso, prendendo di sorpresa l’Europa.
«Non è così. L’instabilità internazionale ha accelerato i processi, ma l’Islam fondamentalista in Europa ha radici lontane. Alla fine degli anni Cinquanta un buon numero di Fratelli musulmani (l’organizzazione, prima religiosa e sociale e poi politica, anticoloniale e neoislamica nata nel 1928 sul Canale di Suez, ndr) perseguitati da Nasser lasciarono l’Egitto e si rifugiarono in Arabia Saudita. Erano professionisti, finanzieri, filosofi. Molti si trasferirono a Ginevra, dove fondarono il primo centro islamico europeo. Di qui passarono in Francia, in Belgio, in Germania a Monaco di Baviera. Negli Anni ’80 il movimento dei Fratelli musulmani si diffonde in Gran Bretagna, dove si salda con i mondi dell’immigrazione pachistana e dal Sudest asiatico. In Italia arriva attraverso le moschee. I Fratelli oscillano tra il pensiero radicale fino alla lotta armata il presidente egiziano Sadat fu ucciso da loro e un pensiero pragmatico più conciliante».

Un modo di pensare radicale non significa necessariamente passaggio al terrorismo.
«Sono assolutamente d’accordo. Ma non bisogna nascondersi che questo tipo di Islam è il più organizzato e che l’obiettivo è sempre la diffusione della sha’ria, la legge islamica attraverso la costruzione di individui e famiglie convintamente religiose che strutturino la società in senso islamico tradizionale. Meno organizzati, ma anche più radicali, sono i salafiti, parte del wahabismo. Sono tutte correnti che si richiamano all’Islam delle origini e che vanno dal disinteresse per la politica fino alla jihad militare. Che questo Islam sia radicato in Europa è noto».

Forse agli addetti ai lavori, ma non alla gente comune.
«Quello che gli esperti sanno non viene diffuso per non creare allarmismi e anche, a mio parere, per non disturbare i manovratori delle politiche a medio termine. Tuttavia, questo tipo di Islam riguarda solo il 20% dei cittadini musulmani europei».

La situazione italiana com’è?
«Secondo una ricerca, i salafiti in Italia sarebbero il 30% dei musulmani nordafricani, diffusi soprattutto nelle aree di Milano, Roma, Napoli. Di questi il 20% frequenta le moschee».

Addio all’integrazione?
«Al contrario, per isolare il terrorismo l’integrazione è importante e va perseguita a fondo, ma chiarendo che funziona nei due sensi, di reciproco rispetto dei valori religiosi e dei doveri nei confronti dello Stato italiano. Il dialogo non è rinunciare a far rispettare le proprie leggi e i propri valori».

L’immigrazione che ruolo gioca?
«Prendiamo solo un aspetto di Mare Nostrum: dei 180 mila salvati, metà non sono stati identificati attraverso i dati biometrici e l’Europa ci ha bacchettato per questo. Gente irrintracciabile. Quanti sono in mano agli schiavisti e alla mafia? Quanti andati in altri Paesi europei? Quanti di quelli presumibilmente restati in Italia si sono rivolti alle moschee non ufficiali per sopravvivere? Quanti, dopo tutto questo, si saranno avvicinati a idee più radicali? Non lo sappiamo. Bisogna salvare, ma poi tener conto di tutto il resto».

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Dopo i fatti di Parigi il problema della sicurezza internazionale è diventato evidente.
«Però a Montecitorio, a parlarne il giorno dopo c’era solo una sessantina di deputati sui banchi. Il primo livello di sicurezza riguarda il web, perché il fondamentalismo si diffonde on line. Bisogna sapere che cosa scrivono i blog in arabo, far nascere una collaborazione contro il terrorismo. Abbiamo fatto finta di ignorare che la radicalizzazione è facilissima in un contesto culturale dove è diffusa l’idea che ciò che è occidentale è negativo».

Il secondo livello è la collaborazione fra intelligence.
«Gli americani hanno messo a disposizione del governo francese i loro dati, ma ora l’Europa deve sbloccare l’accesso ai dati dei passeggeri aerei, che opportunamente incrociati con altre banche di informazioni possono dare risultati interessanti. Esistono reti di collaborazione fra Servizi nei quali l’Italia deve entrare in modo più completo, come probabilmente ha già fatto la Germania. Tuttavia, chi dispone delle tecnologie è riluttante a condividerle perché i rischi di guerra cibernetica aumentano. Inoltre, in questo mondo se non hai informazioni da dare non riceverai nulla in cambio. E l’Italia è molto indietro nelle infrastrutture informatiche che sono lente, frammentate, esposte agli attacchi. Le debolezze del sistema diventano debolezze di dati».

Cambierà la vita del cittadino europeo?
«I fenomeni emulativi realisticamente vanno messi in conto e occorre imparare a guardarsi in giro senza cadere nel sospetto paranoico. Ho vissuto in Israele fra il 2002 e il 2004, quando c’erano gli attentati. Si impara. Se entrando in un supermercato o in un ristorante non c’erano controlli, me ne andavo. Ci sono norme basilari di sicurezza che accetti se diventi consapevole di un rischio, lo fai in modo tranquillo, civile, ma lo fai. Bisogna parlarne apertamente con concretezza, senza filtri ideologici e senza emarginare nessuno, anzi sentendoci tutti più uniti».

©2024 Giulio Terzi

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