di Domenico Letizia
Febbraio 2015
Intervistiamo l’Ambasciatore e già Ministro degli Esteri Giulio Maria Terzi di Sant’Agata sulla nuova campagna lanciata da Non c’è Pace senza Giustizia, Nessuno Tocchi Caino e dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito per la “codificazione del diritto umano universale alla conoscenza”. Lei che ha partecipato con convinzione alla Conferenza internazionale su “Stato di Diritto contro Ragion di Stato”, cosa pensa di questa nuova proposta transnazionale della galassia radicale?
Penso anzitutto che si debba essere profondamente grati a Marco Pannella per questa nuova campagna che ha voluto intraprendere a livello internazionale affinché si consolidi nel sistema giuridico delle Nazioni Unite e nei comportamenti di tutti gli Stati che ne fanno parte il diritto alla conoscenza. Sono ormai passati ventidue anni da quando ebbi occasione di contribuire per la prima volta ad una campagna difficile, dagli esiti incerti, che molti davano per impossibile, avviata dall’Italia alle Nazioni Unite su forte impulso del mondo radicale: quella per la moratoria delle esecuzioni capitali, nella prospettiva di una abolizione della pena di morte in tutti i Paesi del mondo. Abbiamo visto in questi ultimi anni quanta strada sia stata compiuta, nonostante le involuzioni che un clima di violenza sempre più diffusa talvolta suggerisce. La coerenza e la perseveranza esemplare di quanti lottano contro la pena di morte, e lo stesso si potrebbe dire per altre grandi cause come la lotta contro le mutilazioni genitali femminili, per i diritti dell’infanzia, o contro la tortura mi convince che è questo il momento giusto per fare avanzare nel diritto internazionale e nella prassi diplomatica il tema della verità e della conoscenza.
Grandi temi, come quello della pena di morte, delle mutilazioni genitali femminili, della tortura, del traffico di esseri umani, sono entrati a far parte di un patrimonio solidamente condiviso per la cultura giuridica dei cinque Continenti.
Ed è significativo come il nuovo Alto Commissario per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein nel suo primo discorso alla XXVII Sessione del Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra, abbia sottolineato come il suo mandato riguardi tutti i diritti umani per tutti i popoli. L’Alto Commissario ha sottolineato il suo impegno alla lotta alle discriminazioni di ogni tipo, all’affermazione dello Stato di diritto, al contrasto della violenza sessuale, al rispetto dei diritti umani nel contesto dell’antiterrorismo, nella moratoria per la pena di morte. Punto quest’ultimo che dimostra ad abundantiam come il principio dell’universalità non sia certo un trucco per piegare i diritti umani ai comodi dell’Occidente, dato che negli Stati Uniti, ad esempio, rappresenta una criticità avvertita da più della metà della popolazione americana. Ma proprio perché è un tema universale, e non “Occidentale” la moratoria è stata rivotata nelle scorse settimane con crescente successo.
Zeid Ra’ad Al Hussein ha posto l’accento in particolare sulla drammatica situazione in Iraq e in Siria, sulla necessità di proteggere le minoranze religiose e i diversi gruppi etnici, e di contrastare violazioni dei diritti umani che rappresentano sicuramente crimini contro l’umanità. Quali reazioni potrebbe generare tale proposta in Italia?
Ho visto in questi giorni un annuncio pubblicitario di Le Monde Diplomatique che riproponeva ancora come efficace simbolo della precisione documentale della pubblicazione, la ricostruzione della tragedia di Ustica fatta da Andrea Purgatori nel numero del luglio 2014. Sappiamo quante sofferenze siano state patite dai familiari delle ottantun vittime a causa di una verità estremamente controversa, e quanti interrogativi siano nati proprio su questa vicenda dall’asserita esistenza di una “Ragion di Stato” nei nostri rapporti con la Libya di Gheddafi negli anni ’80. Per venire ad esempi molto più circoscritti e recenti potremo parlare dei veri motivi che hanno indotto alcuni Ministri del Governo Monti a voler rimandare i nostri due fucilieri di Marina in India il 22 marzo 2013, nella più totale assenza di garanzie da parte Indiana circa la legge applicabile ai fatti che venivano loro contestati e di conseguenza all’ipotesi che potesse perfino essere prevista la pena capitale. Mi risulta che specifiche richieste avanzate da cittadini e giornalisti alle Autorità competenti di poter avere copia della Nota verbale indiana che il Governo dell’epoca asseriva contenere tali garanzie sono state ripetutamente respinte, con motivazioni risibili. Il Governo Renzi si è pronunciato oramai da tempo su una profonda revisione di norme dietro la quale si trincerano talvolta interessi che ben poco hanno a che fare con la sicurezza dello Stato, con la libertà dei cittadini, e con la dignità del Paese. Penso quindi che l’azione svolta sul piano internazionale per il diritto alla conoscenza sia estremamente opportuna anche per quanto riguarda il nostro Paese.
I governi devono essere responsabili delle loro azioni e devono garantire un’adeguata informazione, che sia disponibile, accessibile e accurata secondo i principi dell’apertura e della trasparenza. Benché alcuni Paesi forniscano ai cittadini gli strumenti per accedere alle informazioni, ad esempio attraverso i Freedom of Information Acts, questa normativa, anche nei paesi cosiddetti democratici, spesso non risponde alle attese naturali e legittime dei cittadini, rivelandosi inadeguata e non disponibile. Come rispondere a questa mancanza e come codificare tale diritto alla conoscenza in ambito Onu?
Il modello del Freedom of Information Act, adottato cinquant’anni fa dalla Presidenza Johnson, costituisce un punto di riferimento molto importante. Non si deve trascurare il fatto che la libertà di informazione nel mondo anglosassone ha caratteristiche che non coincidono interamente alle nostre. Una vera codificazione, nella forma ad esempio di un Trattato multilaterale negoziato nel quadro ONU, mi sembra essere un obiettivo molto ambizioso se riferito alla Comunità internazionale nella sua interezza. Pensiamo a quale potrebbe essere l’atteggiamento di almeno due dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Russia e Cina, su un tema così rivoluzionario dal loro punto di vista. Viene da chiedersi se non possa invece maturare, nel percorso tracciato dalla Conferenza svoltasi a Bruxelles lo scorso anno e dai suoi seguiti, una piattaforma negoziale euro-atlantica, mirata ad una convenzione o un trattato in questa materia.
Polemiche nel mondo anglosassone sono in corso per i ritardi sulla pubblicazione del Rapporto Chilcot che potrebbe identificare precise responsabilità sulla guerra in Iraq e trarre lezioni per contrastare la “ragion di stato” nel futuro come ha ben illustrato Matteo Angioli di Non c’è Pace senza Giustizia e curatore del sito sulla verità della guerra in Iraq e delle responsabilità di Bush e Blair. Secondo lei a cosa si devono tali ritardi?
Sono anche io rimasto sorpreso dalla decisione di Sir John Chilcot di rinviare ulteriormente la pubblicazione del suo rapporto. Difficile non pensare a perduranti condizionamenti e a considerazioni pre-elettorali. Peraltro, si deve considerare che molti aspetti, anche se non sufficienti prove documentali, riguardanti le decisioni che hanno portato nel 2003 ad attaccare l’Iraq sono ormai di dominio pubblico. Ne hanno parlato i diversi protagonisti nelle loro memorie, sono stati riconosciuti errori gravi sul piano politico, nonostante restino dubbi su diversi profili di legittimità delle decisioni adottate. Ma io credo che la ricerca della verità sull’Iraq, avviata nel solco dell’inchiesta Chilcot, dovrebbe estendersi oggi ad una compiuta discussione sulla strategia e sugli obiettivi politici per una soluzione di due drammi epocali che oramai si combinano in un tutt’uno, in Siria ed in Iraq, dopo la creazione del Daesh e in conseguenza di un conflitto Sunnita – Scita che continua a provocare esclusione, anziché coinvolgimento, di componenti fondamentali alla stabilità dei due Paesi.
La sensazione di una strategia militare non sufficientemente sorretta, e forse niente affatto sorretta, da previe intese su assetti politici ben più inclusivi sia a Baghdad che a Damasco, emerge purtroppo da alcune constatazioni:
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in un rapporto di cui è stata recente notizia, nel settembre 2010 un gruppo di esperti militari americani aveva tracciato un quadro molto problematico della situazione nell’intero Paese, nonostante l’apparente, ma temporaneo successo delle operazioni di Counter Insurgency attuate nel periodo 2007-2008.
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Il rapporto descriveva come le elezioni del 2010 avessero aggravato una politica settaria, opposta a qualsiasi riconciliazione, e prevedeva che ampie porzioni Sunnite in Iraq e in Siria diventassero “zone protette” per i terroristi e per una ripresa dell’insorgenza.
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Si segnalava altresì che il Paese continuava ad essere eccessivamente dai redditi petroliferi, utilizzati essenzialmente per finanziare l’impiego pubblico che impiegava però, selettivamente secondo le convenienze del Governo, fondi pubblici mentre il tasso di disoccupazione o sottoccupazione nel Paese era tra il 45 e il 60%.
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Si segnalava altresì che, nonostante Alqaeda fosse stata sconfitta nel 2009 in Iraq essa stava ristabilendo basi in Siria. Anche se non era ancora apparso all’orizzonte lo spettro di uno Stato Islamico, originato nel 2012 dai massacri del Regime Siriano.
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Sin dal 2010 era ben noto agli esperti militari che la ricostituzione delle Forze Armate Irachene presentava dei gap paurosi, che erano incapaci di sostenere operazioni di combattimento, che era assente una cultura della formazione, con scarse capacità di comando e controllo e di intelligence.
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E’ in tale contesto, che abbiamo scoperto recentemente essere aggravato da furti generalizzati (cinquantamila militari sono pagati sul bilancio dello Stato Iracheno, senza però esistere) che Washington ha deciso nel 2011 di rinunciare ad una presenza militare di qualche significato in Iraq perché il Parlamento di Baghdad non ratificava le garanzie sulle immunità dei soldati americani, ritenute una precondizione essenziale per gli Stati Uniti. Precondizione che sarebbe però venuta meno con l’emergenza dettata contro lo Stato Islamico e la necessità di rimandare almeno tremila uomini sul terreno.
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Le recenti vicende del negoziato nucleare con l’Iran, la determinazione con la quale Teheran insiste per mantenere la sua leadership negli affari interni di Iraq, Siria, Libano e Yemen, le pesanti violazioni dei diritti umani di cui, nonostante la Presidenza Ruhani, l’Iran è responsabile in misura crescente, imporrebbe ai Paesi Occidentali, e in particolare all’Unione Europea e all’Italia una strategia ben definita sull’end-game che abbiamo interesse ad ottenere nella crisi senza precedenti per violenza e per estensione che si è abbattuta sulla Siria e sull’Iraq, con riflessi estremamente inquietanti alle nostre porte di casa, in Libia.
La galassia delle associazioni radicali, in queste settimane, sta lavorando alla creazione della Seconda Conferenza Internazionale per lo stato di diritto e il diritto alla conoscenza che si terrà presso il Parlamento Europeo, a Marzo 2015. Saranno presenti relatori ed esperti internazionali nel campo dei diritti umani e delle relazioni internazionali. I partecipanti che si confronteranno nella Seconda Conferenza Internazionale esamineranno gli strumenti internazionali disponibili, giuridici e non, necessari a promuovere la centralità dello Stato di Diritto e l’universalità dei Diritti Umani. Ritiene importante tale conferenza e secondo lei cosa potrebbe partorire di nuovo?
Un manifesto appello che dia forte impulso a un valore fondamentale per la democrazia e per lo Stato di Diritto, come il principio di verità e di conoscenza, mi sembra obiettivo pienamente raggiungibile grazie all’autorevolezza e all’impegno delle personalità coinvolte in questo progetto.
Come tutte le campagne, che vivono di autofinanziamento dei cittadini, anche questa ha un costo, calcolato intorno ai 15.000 euro di partenza. Marco Pannella nei scorsi giorni ha lanciato un appello pubblico ai cittadini, ripreso anche da Radio Radicale e da Massimo Bordin durante la conversazione settimanale con Pannella, per invitare a finanziare la campagna in corso. Lei si unisce a questo appello? Ritiene importante riuscire nell’intento?
Le iniziative di crowdsourcing nelle campagne che riguardano tutti noi, la nostra libertà di cittadini, le potenzialità di una partecipazione diretta alla politica intesa nei suoi valori più alti, stanno avendo sempre più successo. Mi auguro davvero che questo sia un altro esempio positivo di convinta partecipazione, al quale mi sono subito associato.